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Il 30 luglio 2025 l’amministrazione statunitense ha annunciato la più vasta operazione sanzionatoria contro l’Iran dall’uscita di Donald Trump dal Jcpoa nel 2018, colpendo un intricato sistema di oltre 150 tra società, individui e navi collegati alla rete finanziaria e marittima di Mohammad Hossein Shamkhani, figlio di Ali Shamkhani, ex comandante della Marina dei Pasdaran e oggi uno dei consiglieri più ascoltati dalla Guida Suprema Ali Khamenei. La misura è stata definita dal Dipartimento del Tesoro “la più ampia azione Iran-related dall’era Trump”.

L’operazione

Il pacchetto sanzionatorio ha colpito un network che gestiva miliardi di dollari di esportazioni clandestine di greggio iraniano e russo, alimentando tanto le casse del regime quanto le reti di proxy che operano in Medio Oriente, dal Libano allo Yemen, fino ai rifornimenti militari verso la Russia, impegnata nella guerra in Ucraina. Secondo il Tesoro americano, la famiglia Shamkhani aveva strutturato un impero offshore capace di muovere capitali attraverso Marshall Islands, Panama, Cipro ed Emirati Arabi Uniti, schermando i beneficiari finali dietro società di comodo e passaporti falsi dominicani. Le sanzioni statunitensi rispondono a una strategia multilivello. Da un lato mirano a tagliare i flussi finanziari verso Teheran e Mosca, rallentando così la loro capacità di sostenere proxy militari e programmi missilistici. Allo stesso tempo, esercitano pressione su piazze finanziarie e marittime come Dubai, Cipro e Panama, nel tentativo di spingerle a rafforzare i controlli sulle società di comodo, spesso utilizzate per aggirare le restrizioni internazionali. Le misure restrittive inviano un segnale anche a Pechino, sottolineando i costi geopolitici e strategici della mano iraniana nelle supply chain globali.

Il cuore pulsante del sistema era la flotta di 62 navi oggi finite sotto embargo, tra cui 40 petroliere, 22 portacontainer e diverse unità per il trasporto di prodotti raffinati e gas liquefatti. Per rendere complessa ogni tracciabilità e con una metodologia analoga a quella delle flotte ombra russe, queste navi cambiavano frequentemente proprietà, bandiera e gestione, passando da società di facciata a intermediari domiciliati a Dubai o a Limassol, mentre i flussi di pagamento attraversavano hedge fund con sedi a Londra, Dubai e Ginevra. L’intento era duplice: sfuggire ai radar della comunità internazionale e continuare a garantire al regime entrate fondamentali per sostenere sia il programma missilistico sia l’azione dei suoi alleati regionali.

Il network marittimo di Teheran

Uno dei risvolti più sorprendenti riguarda la connessione tra il network iraniano e il trasporto dei container globale. Diciotto delle ventidue portacontainer sanzionate risultano gestite da SeaLead, il tredicesimo operatore al mondo del settore, a conferma della capacità di Teheran di penetrare le catene logistiche internazionali oltre le rotte tradizionali delle petroliere. Il provvedimento di Washington ha inoltre toccato hub di rilevanza strategica come il terminal di Zhoushan Jinrun in Cina, accusato di ricevere greggio iraniano da navi già colpite da precedenti round di sanzioni. Non è la prima o la seconda, ma la quarta volta che una grande infrastruttura portuale cinese finisce nel mirino statunitense, evidenziando come il grande gioco non riguardi più soltanto lo Stretto di Hormuz, ma la geografia complessa delle supply chain globali, dove commercio e competizione geopolitica rappresentato una endiadi strategica e sempre più weaponizzata.

Il risvolto europeo

Il fronte europeo aggiunge un ulteriore tassello a questo mosaico. Negli ultimi mesi, il porto di Anversa, snodo cruciale per il commercio dell’Unione Europea, è diventato il simbolo di come un container possa trasformarsi in strumento di guerra ibrida. Sei navi commerciali iraniane – Shiba, Artam, Artenos, Azargoun, Daisy e Kashan – sono state oggetto di indagini da parte di servizi di sicurezza occidentali e israeliani. Apparentemente impegnate in normali rotte commerciali, trasportavano sulla carta pistacchi, ceramiche e olio da cucina. In realtà, le navi erano veri e propri strumenti di spionaggio, trasferimenti di armi e logistica militare a favore di Teheran.

Il caso più eclatante è quello della Shiba, una portacontainer di 188 metri che nell’estate 2024 compì un viaggio insolitamente lento e frammentato da Bandar Abbas al Belgio. Dopo la partenza del 23 luglio, la nave sostò a lungo tra il Golfo di Aden e il Mar Rosso, in coincidenza con il lancio di un missile Houthi contro la portacontainer greca Groton, proseguendo poi la rotta verso la Siria, con soste a Latakia, cuore della logistica militare di Bashar al-Assad, e successivamente verso la Russia, con attracchi a Novorossiysk, prima di giungere infine ad Anversa. Un percorso che disegna chiaramente l’integrazione tra logistica commerciale e strategia militare iraniana, funzionale tanto alla sopravvivenza economica del regime quanto al sostegno operativo dei suoi alleati.

L’ibridazione del commercio internazionale

Le sanzioni Usa nei confronti delle navi iraniane devono fungere da monito. La linea di confine tra commercio e guerra si è definitivamente sgretolata, e mentre le navi iraniane scompaiono dalle acque europee per riemergere nei porti di Africa e Asia, il traffico marittimo globale si trasforma in uno strumento di supremazia politica, economica, militare. E si misura con le flotte militari, con la capacità di trasformare il traffico commerciale in un’arma invisibile.

Tra Usa e Teheran è battaglia navale. Washington sanziona le navi iraniane

Gli Stati Uniti hanno colpito oltre 150 società e navi legate alla rete di Hossein Shamkhani, figlio dell’ex capo dei Pasdaran. Dalle petroliere fantasma alle portacontainer di SeaLead, fino alle rotte occulte verso Russia, Siria e Belgio: la minaccia ibrida di Teheran si snoda attraverso i porti del mondo

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