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Guerra assai poco probabile, ma non impossibile. Così, fino a pochi giorni or sono, poteva essere descritto l’esito della crisi in corso in Ucraina. Da allora qualcosa è cambiato. Oggi la guerra è possibile, sebbene non ancora molto probabile.

Per tentare un’analisi di cosa sta accadendo e di quali potrebbero essere gli sviluppi del conflitto occorre prendere le mosse da tre assunti.

Primo, ogni conflitto che non sia “puro” o totale, inclusi perciò gran parte dei conflitti armati, è una situazione negoziale. Ciò significa che se è vero che gli avversari mirano al raggiungimento di obbiettivi non compatibili è altrettanto vero che hanno anche interessi comuni. Secondo, in qualsiasi conflitto le controparti agiscono in una condizione di “interazione strategica”. Le mosse di ognuna dipenderanno, cioè, non solo dai mezzi di diversa natura impiegati al fine del raggiungimento dei suoi obbiettivi e dal piano d’azione predisposto a questo scopo, ma anche e soprattutto da quanto farà l’avversario. Terzo, sul piano del calcolo razionale ognuno degli attori coinvolti in un conflitto, per raggiungere i propri fini e vincere la partita strategica, impronta le proprie valutazioni, decisioni e azioni alle aspettative sul comportamento dell’avversario.

L’interazione strategica, in sintesi, è caratterizzata dall’interdipendenza delle scelte e mosse delle parti e dalle reciproche aspettative. Come in ogni altro “gioco strategico” anche in quello in atto in Ucraina i protagonisti perseguono ovviamente obbiettivi incompatibili. Il presidente Vladimir Putin sfrutta la solida posizione guadagnata all’interno, in termini di consenso popolare, e sulla scena internazionale, grazie all’appoggio cinese, per riguadagnare alla Federazione Russa status e ruolo di grande potenza nel futuro sistema di sicurezza europeo e chiudere così la parentesi aperta dalla “catastrofe geopolitica” del 1989-1991. Questo mantenendo o ristabilendo il controllo russo sui Paesi ex-sovietici non ancora entrati nell’orbita occidentale. Il governo ucraino vuole evitare proprio l’avverarsi di una simile prospettiva, difendendo un margine sostanziale di autonomia. Infine, gli Stati Uniti, anche sulla base di esigenze di politica interna, enfatizzano la crisi per sfruttare a proprio vantaggio la situazione di tensione estrema creatasi con l’aumento della pressione russa.

Evidentemente l’intento americano è mettere Putin di fronte all’alternativa del “tutto o niente”, guerra o ritirata russa dal campo. In tal caso, questo è il calcolo, la somma di costi e rischi economici, militari e politici a cui il leader russo andrebbe incontro lo costringerebbe a recedere dall’azione.

Dei maggiori attori europei poco basta dire. Ognuno appare in perfetta linea con la propria tradizione di politica estera e persegue, alla bell’e meglio, l’immediato interesse nazionale: essenzialmente economico, quello tedesco; d’immagine e politico interno, per il presidente francese Emmanuel Macron; di allineamento “fedele e duro” a Washington, nel caso britannico.

E l’Italia? Vale ancora e sempre l’osservazione attribuita a un nostro diplomatico del passato: quando sulla scena internazionale scoppia un temporale l’Italia apre l’ombrello, sperando di non bagnarsi e che la pioggia cessi il prima possibile.

Gli obbiettivi dei protagonisti di questo come di ogni altro conflitto sono dunque incompatibili. È però vero che le parti hanno (ancora) almeno un interesse primario comune: evitare una guerra di dimensioni maggiori, dai costi prevedibilmente enormi e dagli esiti ultimi imprevedibili.

La teoria razionale sulle cause delle guerre ci dice che chi lancia un’offensiva lo fa perché, a torto o ragione, calcola essere la somma di costi e rischi cui va incontro inferiore ai benefici che spera di ricavare da tale iniziativa.

Nelle passate settimane per raggiungere il proprio obiettivo Putin ha dispiegato tutta la panoplia degli strumenti propri della “guerra ibrida” (militari, economici, diplomatici, cibernetici, simbolico-comunicativi, eccetera). Su Mosca si è certamente allungata l’ombra di Kabul: la perdita di prestigio e credibilità americane frutto della disastrosa conclusione della ventennale vicenda afghana, la reputazione di scarsa determinazione guadagnata dall’amministrazione Biden e l’insipienza strategica attribuita oramai da molti agli Stati Uniti. Il progressivo, rapido e forte incremento della pressione russa non ha tuttavia sortito l’esito sperato. Anzi, Washington ha puntualmente rilanciato e persino anticipato Mosca nella salita a gradini più alti della scala della tensione. Al contempo, i pur diversi interessi e sensibilità emersi tra gli alleati della Nato non si sono tradotti in vere, drammatiche fratture politiche.

Indubbiamente la leadership Biden soffre di assai scarsa credibilità, dentro persino più che fuori dei confini nazionali. È perciò inevitabile che il presidente sia tentato di sfruttare il conflitto in Ucraina per chiudere, vincendola, la partita anche personale aperta da molto tempo con Putin. Quest’ultimo, per parte sua, si trova oramai costretto a ottenere un qualche risultato positivo; pena la de-escalation unilaterale, la perdita della faccia e ricadute politiche negative di portata difficilmente valutabile, interne e internazionali.

Putin, insomma, si è spinto troppo oltre. Se questa descrizione del quadro è corretta, allora al leader russo, messo con le spalle al muro, deve esser offerta una qualche onorevole via d’uscita per evitare la guerra. In assenza di ciò, a lui per rafforzare la propria posizione negoziale non resta che “legarsi le mani”. Adottare cioè un’iniziativa clamorosa che, ove l’avversario non concedesse qualcosa in risposta, lo costringerebbe volente o meno a oltrepassare quel limite ultimo che non intendeva e fino a oggi non è stato suo interesse superare. Se o quando Putin dovesse adottare un’iniziativa del genere allora sapremo, per certo, che inizia davvero a calare la “nebbia della guerra”.

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