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Fabio Bassan, ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università Roma Tre dove insegna European Competition Law, ha da poco pubblicato il volume “Digital Platforms and Global Law” (Edward Elgar). Ma mentre noi ci siamo concentrati, in questi mesi, su Dma, Dsa e sugli sviluppi che possono produrre sul mercato, il professore ha approfondito il rapporto tra le piattaforme digitali e “diritto globale”. Per spiegare che il Brussel’s effect non può funzionare se non cambia il modo in cui definiamo le grandi piattaforme digitali.

Perché questo studio ‘tangenziale’ rispetto ai temi di attualità?

Legislatori e regolatori devono inseguire il mercato e impedire che si sviluppi in modo non coerente con il welfare che, in base alle tradizioni giuridiche di ciascun paese, si vuole garantire ai cittadini. Gli studiosi hanno maggiore libertà e possono volgere lo sguardo più avanti, o di lato. A volte, questo tipo di indagine può fornire strumenti utili anche nell’immediato.

Le piattaforme digitali sono oggetto di studio da tempo e tra poco, nell’Unione europea, alcune di esse saranno assoggettate a regole particolarmente stringenti, in una forma che ho definito di ‘concorrenza regolata’, di cui il Dma è l’esempio più evidente: si supera con questa la ‘regolazione negoziata’, o co-regolazione, che vede regolatori e operatori collaborare per la formazione delle regole.

La ‘concorrenza regolata’ è un’impostazione ormai classica nelle comunicazioni elettroniche, in cui obblighi ex ante vengono imposti agli operatori che hanno un potere di mercato significativo al ricorrere di determinate condizioni. Nulla di nuovo e anche in questo caso le istituzioni europee sperano – non senza fondamento – che via Brussel’s effect il nuovo quadro regolatorio per le piattaforme digitali diventi uno standard mondiale capace di imporsi sul modello statunitense, alternativo, dell’autoregolazione. E’ già accaduto in passato; il Gdpr è l’esempio recente più significativo. Temo però che stavolta non sarà così e nel libro illustro e argomento questa tesi, che parte da lontano e si basa sulla prassi.

Cosa c’entra quindi la global law con la regolazione delle piattaforme?

Se per global law intendiamo il diritto degli ordinamenti non statali, possiamo applicarlo anche alle piattaforme digitali, che non sono più ormai solo imprese transnazionali: sono, è questa la mia tesi, veri e propri ordinamenti giuridici, privati. Se arriviamo ad ammettere questo presupposto su un piano teorico, riconoscendo l’evidenza della prassi, possiamo comprendere molte cose. Diventa chiaro ad esempio perché la co-regolazione europea non era più efficace, ma anche perché la concorrenza regolata non è necessariamente la risposta più adeguata.

Perché le piattaforme digitali sono ordinamenti giuridici?

Che l’ordinamento giuridico non si identifichi con lo Stato ma con l’istituzione, e che questa possa essere anche privata, ce lo ha insegnato Santi Romano nel 1918. Il presupposto da cui muovo quindi non è originale né nuovo. Ho applicato questa impostazione alle piattaforme digitali e in particolare ai social networks, che in quanto piattaforme ‘chiuse’ consentono esempi chiari. Queste piattaforme hanno tutte le caratteristiche degli ordinamenti giuridici.

Esercitano il potere legislativo, quando determinano la policy che gli iscritti devono rispettare, che ormai non è più limitata all’appropriatezza delle immagini caricate, alla correttezza delle affermazioni o al rispetto della proprietà intellettuale e industriale. L’ambito oggettivo di applicazione delle norme è ben più ampio, e crescerà ulteriormente in proporzione all’offerta di nuovi servizi o finanche all’uso di una moneta. Esercitano poi il potere esecutivo, quando intervengono per far rispettare la propria policy.

E il potere giudiziario, quando adottano sanzioni nei confronti degli iscritti in via gradata sino all’oscuramento, all’esclusione dalla piattaforma. Si pensi all’azione di Facebook e Twitter il 6 gennaio 2021: hanno entrambe sospeso l’account presidenziale durante l’assalto a Capitol Hill. Facebook, in particolare, non ha applicato la Costituzione o il diritto degli Stati Uniti ma la propria Chart, peraltro molto avanzata, che per eventuali lacune rinvia non all’ordinamento statunitense ma alle norme di diritto internazionale pubblico, a partire da quelle che tutelano i diritti umani.

Cosa cambia questa conclusione ai fini della regolazione?

Se vediamo la relazione degli Stati con le piattaforme digitali come un rapporto tra ordinamenti (pubblici e privati), diventa possibile e anzi normale che le norme degli uni influenzino gli altri e viceversa. Si tratta quindi di studiare il rapporto tra ordinamenti, e approfondire quello tra le piattaforme digitali e gli ordinamenti statali. E’ un rapporto complesso, caratterizzato da rinvii (da un ordinamento all’altro), da limiti che rendono impermeabili gli ordinamenti (l’ordine pubblico, ad esempio), da prevalenza delle norme degli uni sugli altri, a certe condizioni. Ma – e questo è uno dei profili rilevanti –  la relazione è biunivoca, perché c’è reciprocità. Questo consente di chiarire tre punti.

Il primo: c’è un limite ai vincoli che gli ordinamenti statali (o dell’Unione europea) possono imporre agli ordinamenti delle piattaforme digitali, e in questa prospettiva va letta l’efficacia parziale del Dma e soprattutto del Dsa.

Il secondo: reciprocità e relazione biunivoca implica che a volte sono le norme delle piattaforme a prevalere su quelle statali. Anche qui un esempio recente può aiutare a capire. Quando, nella primavera del 2020, gli Stati si sono trovati ad affrontare la prima ondata della pandemia, hanno individuato nella notifica di esposizione uno degli strumenti per limitare i contagi.

In Europa, alcuni Stati (Germania, Francia e molti paesi del nord) hanno optato per un sistema centralizzato, altri (tra questi l’Italia) per uno decentralizzato, peraltro più conforme alla disciplina per la protezione dei dati personali. A distanza di pochi giorni, Google e Apple hanno dichiarato congiuntamente – con un accordo non notificato ad alcuna autorità di regolazione o della concorrenza – che tutti gli smartphones, a partire dal giorno successivo, senza alcun aggiornamento manuale del software, si sarebbero trasformati nello strumento decentralizzato della notifica di esposizione. Molti paesi (tra cui la Germania) hanno dovuto così abrogare norme adottate solo pochi giorni prima e accettare un sistema opposto a quello già scelto.

Terzo: la forza degli ordinamenti digitali risiede (anche) nel fatto che le loro norme sono ‘incorporate’ nella tecnologia. E’ difficile per il regolatore (e impossibile per il legislatore) stabilire a posteriori regole diverse da quelle definite dalle piattaforme, perché non controlla la tecnologia, e i tentativi di renderla ‘trasparente’ sono destinati al fallimento. Al contempo, il regolatore non può definire le regole a priori, senza la collaborazione delle piattaforme digitali. Quindi più che la ‘concorrenza regolata’, che trova la barriera dell’ordinamento privato, serve accelerare la negoziazione delle regole. E’ quello che vediamo oggi sui mercati, ma solo tra ordinamenti privati (le piattaforme digitali). Mancano gli Stati, manca l’Unione europea.

Sulla base di queste conclusioni, cosa dovrebbe fare l’Unione europea?

Seguendo questa interpretazione della realtà, che le attribuisce un senso e un significato, alcuni vincoli gli Stati (e l’Unione Europea) possono effettivamente imporli agli ordinamenti digitali. Altri invece li devono accettare. Altri infine li possono negoziare. Dirimente è sapere quali vincoli rientrano in quali categorie, e la tassonomia qui diventa fondamentale. Quanto all’ultima categoria (vincoli negoziabili), gli strumenti – e di conseguenza, le sedi – sono di due tipi: pubblicistici e privatistici. I primi, sono classici: best practices, standards, GAPPs (prassi e principi generalmente riconosciuti) e le sedi per la negoziazione sono le organizzazioni internazionali, tra cui l’Ocse. I secondi sono strumenti privatistici, contrattuali, e le sedi idonee sono altre organizzazioni internazionali: Unidroit, Uncitral.

L’Unione europea può diventare il motore di questo cambiamento: ne ha tutto l’interesse. L’alternativa è lasciare che sia il mercato a regolarsi, secondo l’impostazione statunitense, sulla quale la Cina stessa non muove più obiezioni, in ragione anche della identificazione in quel paese, ormai accelerata, tra mercato e Stato digitale.

Non guardare il dito del Dma, ma la Luna della global law. Il libro di Bassan

Le grandi piattaforme vanno considerate come veri ordinamenti giuridici. Alcuni vincoli gli Stati (e l’Unione Europea) possono imporli. Altri invece li devono accettare: a volte sono state le aziende a dettare le norme. Altri infine li possono negoziare. L’obiettivo, più che adottare normative antitrust già superate, è definire quali vincoli rientrano in quali categorie

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