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C’è una qualche asimmetria, pur nel fil rouge che collega l’esito del voto francese con la scena pubblica italiana di questi giorni. Macron sperimenta le gioie delle liaisons dangereuses con i populisti di Mélenchon e della Le Pen, progettando – udite udite – addirittura l’ingresso di un’istituzione italiana doc nella politica francese, il governo di unità nazionale e forse, chissà, persino un governo tecnico. E noi per una volta possiamo alzare il sopracciglio e dire ai transalpini: “ragazzi, l’abbiamo già fatta e digerita e pure squagliata: i nostri Mélenchon e Le Pen hanno già chiuso il loro ciclo. Buona fortuna e comunque a disposizione per delucidazioni e suggerimenti”.

Perché, quale che possa essere il giudizio su quel che è avvenuto con lo strappo di Di Maio, una cosa è certa: è il certificato di morte della stagione “pop” della politica italiana, con la liquidazione senza appelli di ciò che il risentimento di un certo ceto politico marginale, il rancore sociale, l’antagonismo qualunquista e antiparlamentare, hanno gettato nella sfera pubblica italiana negli ultimi anni, avendo come interpreti Salvini a destra e i Cinque Stelle da qualche altra parte che ancora non si capisce bene cosa fosse. Non che il populismo italiano sia destinato a scomparire totalmente, s’intende: resteranno fuochi fatui qui e là (credo si stia riscaldando per la nuova corsa un campione pop come Di Battista, tanto per fare nomi), un po’ di deposito anche nei partiti “storici” (il politically correct serpeggiante tra i parenti ricchi del “campo largo”) e, purtroppo, le ferite non più sanabili inferte alle istituzioni (la più grave l’amputazione del Parlamento senza criterio). Ma si tratterà di presenze fisiologiche, sperabilmente non di patologie letali.

Di Maio ha avuto il doppio merito di rompere scegliendo un tema alto, di politica estera e facendo un’onesta abiura delle false credenze: il suo “uno non vale uno” è stato il più potente detonatore che potesse scegliere per far saltare il Movimento, la sua distopia digitale, la sua ambiguità “di lotta e di governo”. Qualche schizzo delle brutte pratiche parlamentari degli ultimi anni gli toccherà: a Palazzo Madama ha i suoi dieci senatori come da regolamento, solo che la recente riforma dell’art.14 ha incattivito la regola e chiede di più: per esistere deve trovarsi una sigla che si sia presentata alle ultime elezioni. E dunque per essere soggetto politico autonomo deve adattarsi a fare la fiction di alienare la sua autonomia. Ovviamente le generosità non mancheranno, e, così come già avvenuto in passato per simili situazioni, qualche cosa costeranno. Una riforma stupida, fatta per impedire la nascita di nuove formazioni politiche, dimenticando che l’emorragia dai partiti si ferma rinvigorendo i partiti e non mettendo ostacoli alla politica.

In ultimo: qual è il campo di Luigi Di Maio? L’opzione netta per la linea espressa da Draghi non è solo un gesto di coerenza con il suo ruolo di ministro degli Esteri, ma anche una scelta che lo proietta verso quella “terra di mezzo” che è un po’ l’Eldorado evocato da tutti. Ci stanno già Renzi, Berlusconi, Calenda, i partiti putativi dei sindaci, insieme con una quantità indefinita di organismi unicellulari illustrata dai partecipanti a pastoni dei telegiornali e talk show. I sondaggisti, che non dormono la notte, già apprezzano la nuova creatura dimaiana tra il 2 e il 3 %, più o meno come ognuno degli altri abitatori della terra di mezzo. Staremo a vedere.

Intanto circola in rete una Face Swap Live che raffigura un personaggio con i tratti somatici combinati di Di Maio ed Andreotti. Il risultato finale è impressionante. E poi, a ben vedere, in fondo il divo Giulio entrò a soli 27 anni negli scranni dell’assemblea costituente, l’età che aveva Luigi nel 2013 quando fu eletto alla Camera.

Phisikk du role - Divorzio all’italiana (imparino i francesi)

Di Maio ha avuto il doppio merito di rompere scegliendo un tema alto, di politica estera e facendo un’onesta abiura delle false credenze: il suo “uno non vale uno” è stato il più potente detonatore che potesse scegliere per far saltare il Movimento. La rubrica di Pino Pisicchio

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