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Molto più di un’amicizia: un vincolo. Giuliano Amato descrive così i rapporti diplomatici tra Italia e Stati Uniti, di cui ricorrono i 160 anni. Lo fa dal Centro Studi Americani di Roma, il think tank che da più di un secolo raduna a Via Caetani, all’ombra di Botteghe Oscure, il gotha a stelle e strisce in Italia. L’occasione è la presentazione de “L’America per noi” (Luiss University Press), l’ultimo libro di Mario De Pizzo, giornalista del Tg1 molto attento alle dinamiche d’oltreoceano.

Un viaggio fra alti e bassi della special relationship tra Roma e Washington con interviste a ex ministri e premier, da Massimo D’Alema a Paolo Gentiloni. Il rapporto con gli Stati Uniti, spiega Amato, “ha permesso al nostro Paese di contare in Europa”. E negli anni “ha consentito all’Italia di compensare lo svantaggio in Europa nei confronti delle altre tre grandi nazioni: Regno Unito, Francia e Germania”.

L’ex presidente del Consiglio e giudice della Consulta parla poco e soppesa le parole. Sa di essere ancora una volta al centro delle cronache. Non perché abbia fatto qualcosa per arrivarci. È ormai tradizione, ogni volta che il Paese cerca la soluzione di uno stallo istituzionale fra le “riserve della Repubblica”, che il suo nome torni in cima alla lista. Succede anche oggi per il Quirinale: in questi giorni voci sulla stampa raccontano che il nome del socialista potrebbe godere di un consenso trasversale, se la candidatura di Mario Draghi non dovesse andare in porto.

Amato rompe il silenzio da un palco di assoluto livello istituzionale. Ad aprire il convegno c’è un videomessaggio di Mariangela Zappia, stimata ambasciatrice a Washington DC. A conversare con lui, insieme Maurizio Caprara, commentatore di politica estera e a lungo inviato diplomatico del Corriere, e alla collega di Bloomberg Alessandra Migliaccio, il presidente dell’Ispi e di Fincantieri Giampiero Massolo.

La presentazione, senza mai scendere nella cronaca politica sul Colle, offre un assaggio dell’Amato-pensiero sul Paese e il suo posizionamento internazionale. “Quando il Regno Unito era nell’Unione europea, secondo una dottrina di cui sono autore, in Europa c’erano tre grandi e mezzo. Noi eravamo la mezza misura. Compensavamo con il rapporto con gli Stati Uniti, che abbiamo fatto valere tanto che per esempio non abbiamo mai fatto ingresso in Airbus e abbiamo continuato a produrre per Boeing”.

Eccolo, il “vincolo atlantico”, che secondo Amato oggi gode di buona salute. La congiuntura europea e la stagione politica in Italia, con Draghi alla guida del Paese, fanno sperare che “il nostro ruolo nel continente si rafforzi di più”, dice l’ex premier. Anche grazie a un’amicizia ritrovata dopo qualche sbandata. Quella con gli Stati Uniti è “un’amicizia credibile ed affidabile” perché “noi ci sentiamo e veniamo sentiti come parte della comunità americana”.

“L’amministrazione Biden vede con molta chiarezza il ruolo che il nostro Paese sta giocando ­– gli fa eco da Washington la Zappia – l’Italia ha sostenuto per prima nell’Unione europea la necessità per l’Europa di giocare un ruolo geopolitico più importante in modo complementare alla Nato, rafforzandola”. Il “gioco di sponda” tra Italia e Usa è insostituibile per garantire la resilienza delle democrazie occidentali, dice Amato.

Democrazie che oggi si trovano di fronte a “un duplice pericolo”. Una sfida esterna, perché devono “farsi valere” di fronte alla proposta autocratica sempre più pressante, a partire dalla Cina di Xi Jinping. Una interna, ben visibile nella società americana ai tempi di Trump e Biden, dove ancora oggi “rimangono superstizione, chiusure razziste, cancel culture”.

A volte l’asse tra Roma e Washington traballa. Per dirla con Massolo, “spesso ci vuole un traduttore” che non sempre è automatico. “Il legame con gli Stati Uniti è la foto del nostro stare al mondo. E per farlo abbiamo bisogno di due cose: un potere di coalizione e un potere di ricatto. Per il primo serve circondarsi di Paesi con cui camminare insieme, alcuni partner e altri alleati. Ma bisogna avere chiara la differenza”.

Un’ambiguità che trova riscontro nella sempreverde tentazione dell’Italia di candidarsi a “pontiere” tra mondi diversi. A volte bene accolta anche dall’alleato americano. Ricorda Caprara sfogliando il libro di De Pizzo quando Bill Clinton sussurrò a D’Alema di esprimere riservatamente a Mohammad Kathami, ex presidente dell’Iran in visita a Roma, la sua personale “simpatia”. “Un presidente americano che chiede sottovoce a un presidente del Consiglio di formazione comunista di parlare a suo nome con il capo di un Paese governato dal fondamentalismo islamico”. Anche di queste contraddizioni è fatta l’insostituibilità di quel “vincolo” che centosessant’anni dopo resiste e ancora si rafforza.

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