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Spendere o non spendere, questo è il problema. Gli Stati Uniti in piena quarta ondata e con l’inflazione al 6,8% a novembre (l’ultima volta in cui si sono visti livelli simili correva l’anno 1982 e c’era Ronald Reagan presidente) sono dinnanzi a un bivio. Ieri sono stati diffusi i dati sulla crescita americana nel terzo trimestre, rivelatori di un primo, minuscolo, rallentamento della slancio iniziato sei mesi fa.

Il Pil è risultato in aumento del 2,3%, un tasso annualizzato leggermente più alto di quanto inizialmente previsto, ma nettamente più lento rispetto al trimestre precedente, quando l’economia Usa è cresciuta del 6,7%. Nel primo trimestre si era toccato un valore del + 6,3%. Gli analisti si attendevano, per il terzo trimestre, un aumento del 2,1%. Goldman Sachs ha invece tagliato la crescita americana di un punto percentuale, motivando tale revisione con la mancata approvazione del Build Back Better, il piano pandemico da 1.750 miliardi di dollari, metà clima e metà infrastrutture, impantanatosi al Senato dopo il mancato appoggio del senatore dem Joe Manchin.

Addirittura, secondo altri economisti, in assenza di un via libera al piano, nel 2023 si andrebbe incontro a una contrazione del Pil del 2% e a una perdita di 750 mila posti di lavoro. Depennare dal bilancio federale 1.750 miliardi di spesa pubblica, potrebbe insomma rivelarsi un problema in termini di crescita. Qui però viene il rovescio della medaglia. Perché più spesa vorrà dire sì più crescita ma anche più inflazione. Immettere nel mercato tanti soldi getterebbe ulteriore benzina sulla domanda, surriscaldando i prezzi.

Ed è proprio questa la preoccupazione di Manchin, condivisa con buona parte dei repubblicani, che ha spinto il senatore a mettersi di traverso e bloccare la transizione ecologica statunitense. “Non posso votare questo atto legislativo. Non posso. Ho provato tutto ciò che è umanamente possibile. Non posso arrivarci”, ha spiegato con aria di resa l’ex governatore della Virginia. Il quale non ha tutti i torti, visto che prezzi più alti vuol dire anche erosione del potere d’acquisto e quindi, alla fine, della stessa domanda. Insomma, o si punta dritto sulla crescita votando il Build Back Better, correndo qualche rischio di inflazione, oppure non lo si appoggia e si cerca di contenere i prezzi, sacrificando il Pil.

Se può essere di consolazione a Biden, gli Usa sono in buona compagnia. Anche l’apparentemente invincibile Cina ha dovuto incassare un taglio della crescita. Nella Repubblica Popolare i problemi sono altri, ma la sostanza non cambia. La Banca Mondiale ha rivisto le previsioni per la crescita economica, sia quest’anno sia il prossimo, poiché la seconda economia più grande del mondo affronta in un colpo solo la variante Omicron (come il resto del mondo) ma soprattutto il collasso del settore immobiliare, che vale il 25% del Pil.

Nel 2021 il Pil cinese dovrebbe aumentare dell’8%, dato inferiore alle previsioni precedenti: a ottobre, la Banca mondiale prevedeva che la Cina crescesse dell’8,1% quest’anno, mentre a giugno prevedeva una crescita dell’8,5%. Non è tutto. L’istituto di Washington ha anche ridotto le sue previsioni per il 2022 dal 5,4% al 5,1%, il che rappresenta il secondo ritmo di crescita più lento per la Cina dal 1990, quando l’economia del Paese è aumentata del 3,9% a seguito delle sanzioni internazionali relative al massacro di piazza Tienanmen del 1989.

Gli Usa al bivio tra inflazione e crescita. Mentre la Cina arranca

La mancata approvazione del Build Back Better potrebbe costare fino a 2 punti di Pil agli Stati Uniti, che già nel terzo trimestre mostrano un po’ di affanno. Ma d’altro canto, come teme il senatore Manchin, il piano potrebbe infiammare ancora di più i prezzi. Intanto la Cina va incontro a un 2022 meno brillante del previsto

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