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Che si tratti di classifiche stilate dall’Ocse, dalla Commissione europea, o da istituti di ricerca privata, come l’inglese The Economist Intelligence Unit, l’Italia è sempre in coda per qualità media della preparazione scolastica. In testa ci sono i Paesi del Nord Europa, quelli baltici soprattutto. Forse influirà la bassa densità della popolazione, ma tutti concordano che un fattore distintivo delle buone performance nelle latitudini settentrionali consista nella formazione degli insegnanti.

In primo luogo, la selezione del personale docente – in Finlandia, Estonia, Danimarca, per fare qualche esempio – è molto severa: per insegnare, in ogni ordine di scuola, bisogna essere laureati, ma anche aver conseguito ottimi voti alle superiori e superare parecchi test. In generale, solo il 10% circa degli aspiranti insegnanti viene assunto, cosa che fa sì che la preparazione dei docenti sia molto alta e che il loro status sociale sia elevato; ovviamente anche i salari sono, di conseguenza, al di sopra della media europea. Ma la componente salariale è successiva alle performance richieste.

Allora perché stracciarsi le vesti se il governo vuole accelerare sulla strada delle performance formative dei docenti? Con il via libera da parte del Consiglio dei ministri all’inserimento dentro il Decreto Pnrr 2, già approvato lo scorso 13 aprile, della riforma del reclutamento docenti, si dovrebbero definire nuovi percorsi, più rigorosi. Un percorso universitario di formazione iniziale con almeno 60 crediti formativi, con una prova finale abilitante, cui accedere anche durante i percorsi di laurea triennale e magistrale o della laurea magistrale a ciclo unico, poi un concorso pubblico nazionale, indetto su base regionale o interregionale e un periodo di prova di un anno. Dovrebbe cambiare così il reclutamento per i docenti, secondo la bozza esaminata dal Consiglio dei ministri che dovrebbe essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale nei prossimi giorni. Al concorso potranno accedere anche i precari che abbiano svolto servizio presso le istituzioni scolastiche statali per almeno 3 anni scolastici, anche non continuativi, negli ultimi 5 anni. Nella prova finale è compresa una lezione simulata, per testare, oltre alla conoscenza dei contenuti disciplinari, la capacità di insegnamento.

Quando una decina di giorni fa il ministro Patrizio Bianchi aveva anticipato alle delegazioni sindacali gli schemi di indirizzo tutti i rappresentanti delle organizzazioni dei docenti si erano stracciati le vesti, come se il decreto del governo fosse un atto di lesa maestà. Si può discutere sull’abitudine di procedere per decreti legge, non solo da questo governo, ma almeno da dieci anni a questa parte. Ma una ragione di urgenza, collegata allo schema del Pnrr in questo caso c’è. La riforma, così come previsto nel Pnrr, dovrà arrivare al traguardo entro giugno. I concorsi, in base a quanto si legge nel documento, saranno su base annuale. L’obiettivo è arrivare entro il 2024 a 70mila immissioni in ruolo.

La concertazione, talvolta mitizzata, è spesso cattiva consigliera, quando si tratta di mettere mano a schemi di riforma che puntano a cambiare passo a un Paese che, come nel caso della qualità dell’insegnamento, continua a registrare performance negative. Da anni.

Gli insegnanti frequentanti con profitto le prove valutative intermedie, i percorsi di formazione e aggiornamento permanente selezionati e certificati dalla Scuola di alta formazione, avranno più soldi nella busta paga. Che cosa c’è di male? La contrattazione deve intervenire all’interno di uno schema disegnato in relazione agli obiettivi istituzionali da perseguire.

Di certo sulla qualità della scuola influiscono gli investimenti: salari dei docenti, ma non solo. Ci vogliono spese per attrezzature tecnologiche e per infrastrutture aggiornate. Secondo l’Education and Training monitor, l’ultimo report sullo stato dell’istruzione nei Paesi membri pubblicato dalla Commissione europea, la media europea per quanto riguarda la percentuale della spesa pubblica destinata all’istruzione, si assestava sul 9,9%. Le differenze tra gli Stati membri sono però sostanziali. Tra gli Stati che hanno destinato più fondi alla scuola figurano: Estonia (15,8%), Lettonia (15,1%), Malta (14,2%), Svezia (13,8%) e Lituania (13,4%). Fanalini di coda sono, invece, l’Italia, che spende solo l’8,2% della spesa pubblica per l’istruzione, la Grecia (8,3%) e la Romania (9,1%).

Se gli investimenti vengono, invece, analizzati in relazione al Pil di ciascun Paese, le percentuali cambiano ma la classifica resta quasi invariata. In questo caso, la media europea si assesta sul 4,6%, mentre gli Stati che hanno investito di più sono Svezia (6,9%), Danimarca (6,4%) ed Estonia (6,2%). Quelli che hanno investito meno sono, invece, Romania e Irlanda (3,2%), Bulgaria (3,5%) e Italia (4%).

Argomenti che non sono stati sollevati dai sindacati dei docenti. Bisogna ricordare a tutti che al centro della scuola non c’è il personale – docente o non docente – ma i ragazzi (e quindi anche le loro famiglie) con la legittima aspirazione di ricevere il meglio dall’Istituzione che li accompagnerà negli anni decisivi della loro formazione.

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Bisogna ricordare a tutti che al centro della scuola non c’è il personale ma i ragazzi (e quindi anche le loro famiglie) con la legittima aspirazione di ricevere il meglio dall’Istituzione che li accompagnerà negli anni decisivi della loro formazione. L’analisi di Antonio Mastrapasqua

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