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Più che una previsione, quello emanato dall’Istat è un necrologio nazionale.

Il nostro Istituto di Statistica nazionale ha recentemente pubblicato un approfondimento legato ad uno degli aspetti più rilevanti per il futuro del nostro Paese: l’andamento demografico futuro.

Le stime proposte dall’Istat, va detto, trattandosi di dati relativi ai prossimi 30 anni, sono principalmente proiezioni, il cui ruolo principale non è tanto quello di definire effettivamente come sarà composta la nostra società, quanto piuttosto individuare quali forme potrebbe assumere la nostra società “al netto di cambiamenti”.

E a giudicare dai dati diffusi, questi cambiamenti si rendono quantomeno necessari.

L’analisi, infatti, prevede che, tra trent’anni, l’età media della popolazione italiana sarà di 50,7 anni, e che la nostra società sarà caratterizzata da un rapporto tra giovani e anziani pari a 1 a 3.

Soprattutto, al netto di cambiamenti, l’Istat nella sua analisi individua che nel 2048, i decessi durante l’anno saranno il doppio delle nascite previste.

Ricordiamo che si tratta di proiezioni, e che trent’anni sono tutt’altro che pochi, ma le condizioni per iniziare a preoccuparci del nostro futuro, e quello dei nostri “non-figli”, ci sono tutte.

Perché l’Italia dipinta su questa bozza, è un Paese vecchio, con milioni di cittadini in meno; un’Italia in cui i piccoli comuni, che molti proclamano detenere un’eredità storica importante del nostro Paese, tenderanno sempre più a dissolversi in comuni fantasma. Un’Italia con scuole vuote e con una tendenziale concentrazione dei più giovani nei centri urbani più importanti.

Un’Italia in cui, attraverso il meccanismo politico che ha contraddistinto il nostro Paese per decenni, la maggior parte delle attenzioni politiche saranno rivolte ai soggetti votanti, che saranno, lo ricordiamo, sempre più anziani. Facile immaginarne le politiche: l’incremento della vita tenderà a far nascere sempre più centri per aggregazione per anziani, a discapito di iniziative volte a far crescere la demografia o a sviluppare condizioni di vita sostenibili per i giovani. Un Paese che quindi, agli occhi di questi ultimi, finirebbe col risultare meno attraente rispetto alle opportunità internazionali, con conseguenze sul bilancio dei flussi migratori, dal sud al nord, e dall’Italia all’estero.

Un Paese morente, insomma.

Certo, uno scenario del genere assume quasi i connotati della distopia, ma è anche bene tradurre in concreto ciò che i soli numeri non riescono ad evocare.

È evidente, quindi, che per definire scenari differenti sia necessario, per il nostro Paese, iniziare a definire da ora delle politiche correttive, che vadano a contrastare, nel medio e nel lungo periodo, i tendenziali evidenziati dall’Istat.

Ed è evidente che politiche correttive di questo tipo debbano riguardare necessariamente tutti i settori: dall’economia alle infrastrutture, dall’istruzione agli incentivi ai cittadini che decidono di avere un figlio nel nostro Paese.

In questo scenario così ampio, però, anche la cultura può giocare la propria parte.

Beninteso, una condizione di questo tipo non può certo essere risolta con uno spettacolo teatrale.

Ma se pensiamo alla cultura come un segmento molto più ampio, come un settore in grado di generare effetti e impatti sia di tipo economico che extra-economico, allora qualcosa, nel suo piccolo, anche la cultura può farlo.

La cultura e la creatività, come settori economici, sono settori ancora “giovani”, la cui conformazione può assumere un ruolo dirimente nelle politiche di natura economica.

Oggi, per lo più, sono settori composti da piccoli studi, o, come si dice nei documenti ufficiali, da Micro e Pmi, con alcuni player di maggiori dimensioni che detengono, in buona sostanza, una larga fetta del mercato.

Agire su questi segmenti attraverso una vera politica industriale potrebbe portare ad una maggiore distribuzione del valore aggiunto aggregato, con una conseguente ridistribuzione del reddito.

Non è un’operazione semplice, soprattutto perché richiede una visione politica generale: sarebbe inopportuno, nonché contrario ai principi di libero mercato, prevedere delle politiche che diano un indebito vantaggio ai soggetti più piccoli.

Tale ridistribuzione potrebbe tuttavia essere la naturale conseguenza di fattori congiunti di sviluppo: da un lato una politica a favore dell’export culturale e creativo, dall’altro una politica di favore che incentivi le imprese di più grandi dimensioni ad acquisire quote societarie di minoranza per soggetti più piccoli al sussistere di determinate condizioni.

Una condizione del genere potrebbe, ad esempio, rappresentare un vantaggio per l’intero comparto allorquando si favorisse la nascita di “piccoli comuni 4.0”, dimenticando una logica di costi-benefici di breve periodo, ed includendo, al contrario, i costi-opportunità in caso di spopolamento del nostro Paese.

Perché l’obiettivo è invertire una tendenza al “luna park per anziani”, e per farlo, è necessario attuare oggi politiche che abbiano effetti già nei prossimi 10 anni, con un’inversione di tendenza sul dato demografico.

In questo scenario, non può non essere presa in considerazione anche la componente tecnologica, che sempre più caratterizza il nostro tempo.

Oggi non è impossibile immaginare “nuove forme di vita” all’interno dei piccoli comuni: il ripopolamento dei borghi potrebbe essere così demandato ad azioni volte a costituire hub creativi, con aggregazioni di uffici in smart working realizzati in accordo con le imprese di tutto il territorio e dei territori internazionali.

Così come oggi non è impossibile immaginare che le industrie culturali e creative (al pari di altre, sia chiaro), possano assumere dipendenti non laureati a condizioni di vantaggio nel caso in cui le suddette imprese si impegnino a coprire i costi dell’Università per tali dipendenti.

Ancora, politiche di sviluppo potrebbero emergere da una visione più ampia in merito all’attrazione di investimenti diretti esteri: oggi svendiamo i nostri territori perché semplicemente li trattiamo come pezzi di terreno.

Sarebbe invece utile coinvolgere gli investitori in processi di sviluppo, facendo sì che gli stessi non acquistino, superficialmente, degli immobili, ma dei progetti di crescita legati a tali immobili, facendo in modo che il maggior valore della vendita vada ad essere destinato proprio alla realizzazione di tali progetti.

Forse è bene ripeterlo: la cultura non è e non sarà mai la sola industria in grado di invertire un processo di questo tipo.

Ma è giusto anche ribadire che se iniziamo a considerare la cultura come un asset vivente, come un’industria in grado di generare cambiamenti e non soltanto come un patrimonio da salvaguardare, allora la cultura può giocare un ruolo ben più importante di quello che attualmente ricopre nella definizione del nostro futuro.

Questo tipo di inquadramento, tuttavia, sfugge ancora a molti. Soprattutto a chi di cultura si occupa.

La cultura come motore demografico di un'Italia (altrimenti) morente

La cultura e la creatività, come settori economici, sono settori ancora “giovani”. Una vera politica industriale permetterebbe di invertire la tendenza descritta dal “necrologio” Istat, di un’Italia che nel 2048 avrà il doppio dei morti rispetto ai nati. Le proposte di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

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