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Scena prima, estate 2019. Matteo Salvini è vice premier del governo Conte, ne controlla metà (circa) della delegazione ministeriale ed è lui stesso potente ministro dell’Interno, è reduce da trionfali elezioni europee dove ha ottenuto un poderoso 34,3 % (staccando nettamente il Pd fermo al 22,7, umiliando l’alleato di governo grillino al 17,1 e polverizzando i partner Fi all’8,8 e FdI al 6,4) ed è al centro della scena politica nazionale ed anche europea, essendo il gruppo degli eletti Lega al Parlamento di Bruxelles il più numeroso dell’intero continente.

Scena seconda, gennaio 2022. Salvini è il capo della Lega che è tornata al governo ma in una coalizione “larga” che sostiene l’italiano (al momento) più forte del mondo cioè Mario Draghi, il quale agisce (almeno in parte) come un “commissario” di un sistema di partiti in grave difficoltà. I ministri della Lega sono tre e tutti non proprio tra i fedelissimi del leader, mentre molti ruoli di primissimo piano dell’esecutivo sono appannaggio di figure tecniche scelte direttamente dal premier. La coalizione comprende Pd, Leu, M5S e Fi, quindi impone alla Lega un gioco quotidiano di articolata mediazione, mentre l’ex premier Conte guida il movimento grillino (a fatica) verso un accordo elettorale per il 2023 con il Pd. Infine i sondaggi più accreditati stimano la Lega capace di un 18-19 %, di poco superiore alle metà dei voti raccolti nel 2019 (mentre il partito di Giorgia Meloni ha triplicato i suoi consensi nello stesso periodo).

Nel passaggio tra scena prima e scena seconda c’è tutta la fatica di Salvini nella partita del Quirinale, complicata non poco dalla candidatura (più o meno ufficiale) di Silvio Berlusconi.

Siccome però i fatti del 2019 hanno trovato nella “pazza” estate del Papeete la sua conclusione (con rottura dell’alleanza di governo con il M5S), ecco che oggi siamo ad un passaggio cruciale per il capo della Lega, cruciale perché da allora ad oggi le cose non sono andate come lui voleva, a cominciare dal fatto che la legislatura ha trovato la forza di proseguire anche senza di lui.

Eccoci quindi arrivare all’oggi, con il frenetico giro di consultazioni che vede Salvini protagonista forte di una solido asse con Renzi (pur da posizioni mai del tutto sovrapponibili), forte di un rapporto con Draghi rimesso in carreggiata dopo mesi di punzecchiature e incomprensioni, forte di una capacità di dialogo anche con il “nemico” Conte che non sarà mai intesa profonda ma è quantomeno diventata volontà di parlarsi.

I problemi per Salvini (e non si tratta di un paradosso) sono più gravi dalla sua parte, perché la candidatura del Cavaliere e la rivalità con Giorgia Meloni rendono assai difficile un reale agire comune, piene come sono le giornate di fughe in avanti (Salvini in questo è uno specialista) e successive parziali correzioni di rotta, di accordi vaghi siglati con scarsa volontà di rispettarli, di cose non dette in presenza ma annunciate a mezzo stampa.

Quel che è certo però è che Salvini ha capito la rilevanza della posta in gioco. Se la soluzione finale del “rebus” Quirinale lo vedrà protagonista si aprirà la strada per lui verso una più sicura e fruttuosa navigazione nel mare agitato dei prossimi 12-18 mesi, compresa la probabile “ristrutturazione” del governo in carica che si annuncia. In caso contrario sarà per lui assai più difficile giocare il ruolo di leader della coalizione, anche perché in gioco c’è l’esistenza della coalizione medesima.

Insomma Salvini non può sbagliare stavolta, perché siamo di fronte alla vera rivincita del Papeete. E alla rivincita non è ammesso perdere, per il semplice fatto che tra 1-1 e 2-0 la differenza è abissale.

Salvini si gioca la rivincita (del Papeete)

Salvini ha capito la rilevanza della posta in gioco. Se la soluzione finale del “rebus” Quirinale lo vedrà protagonista si aprirà la strada per lui verso una più sicura e fruttuosa navigazione nel mare agitato dei prossimi 12-18 mesi. L’editoriale di Roberto Arditti

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