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Che succede a Tim? Cosa accadrà se mettiamo all’asta le concessioni idroelettriche? Come finirà la partita Mediobanca-Generali? Quali conseguenze ci saranno dalla decisione di Leonardo di cedere Oto Melara? Perché siamo improvvisamente affamati di microchip e semiconduttori? Come facciamo ad evitare l’impennata dei costi energetici?
Sono tutte domande -ma potremmo continuare- che ci stiamo facendo, in questo frangente storico, interrogandoci spesso solo sulle conseguenze epidermiche dei fenomeni senza riuscire ad andare a fondo delle motivazioni che provocano le scosse telluriche nel mondo dell’economia, della finanza, della logistica, delle infrastrutture strategiche. In una parola, nel mondo della geopolitica. Perché ormai tutte queste tematiche sono intimamente connesse con la geopolitica.
Oggi dibattiamo sul significato -e la portata- della manifestazione di interesse di Kkr in Tim. Ma nel frattempo stiamo passati dai 573 milioni di investimenti diretti esteri provenienti dalla Cina del 2015 ai quasi 5 miliardi del 2019 -ovvero una impennata di quasi dieci volte in quattro anni- in settori strategici come energia, reti, aziende ad alto potenziale innovativo e strategico. Così come non sono certo un mistero l’attivismo francese nel comparto bancario, finanziario e assicurativo o la presenza di importanti fondi internazionali (anche sovrani) nel capitale di alcuni dei più importanti istituti di credito italiani.
Ciò che è importante comprendere è un punto focale: le crisi che stiamo attraversando, insieme con la fisionomia industriale e commerciale attuale, inducono a considerare con molta attenzione il concetto di “guerra economica”.
Nel XXI secolo non ci si pone più l’obiettivo classico della conquista di nuove terre o del dominio fisico su nuove popolazioni; oggi l’esercizio bellico nuovo è la costruzione di un potenziale tecnologico, industriale e commerciale capace di attrarre denaro e occupazione sul proprio territorio, attraverso la penetrazione e il progressivo controllo delle filiere di altri paesi.
Non siamo più nella “belle époque” della globalizzazione, quando -almeno noi occidentali- vivevamo nella concezione che il liberalismo fosse un fine a sé, che avesse raggiunto la sua egemonia mondiale (do you remember Fukuyama?) e che tutt’al più, come ci spiegavano i precetti neo-con di inizio secolo, si potesse esportare la democrazia e il nostro sistema di valori manu militari.
L’idea di Xi Jinping della Cina come “Stato-civiltà” superiore come modello al decadente mondo occidentale, il patto di Shangai tra Cina e Russia del 2014 in materia di energia e cooperazione militare, il ripensamento della NATO con la “bussola strategica” sono segnali precisi.
Ci siamo risvegliati dalla bolla, e ci siamo accorti che il mondo è cambiato. E che il commercio mondiale non si struttura più solo sulla base dell’idea un pò ingenua della semplice domanda ed offerta, ma oggi vede l’ingresso in campo di quel “capitalismo politico” con il quale gli Stati-Nazione intervengono direttamente nel mercato per conseguire obiettivi strategici e geopolitici.
L’Italia oggi tra “Piano di Ricostruzione” e fondi strutturali di coesione ha sul tavolo almeno 400 miliardi nei prossimi 6 anni. In settori fondamentali come la transizione ecologica e quella digitale.
Non ci vuole molto a capire che -dentro questa cornice- vi è un deciso aumento del rischio di azioni a carattere speculativo o predatorio in direzione di quegli asset industriali o finanziari che, insieme, concorrono a definire ed ad alimentare i nostri interessi economici nazionali.
Questo viene enfatizzato dalla caratteristica del nostro tessuto produttivo, fatto per il 92% delle imprese attive da piccole e medie aziende.
La “guerra economica” oggi si fa acquisendo asset privilegiati di un paese, per poi spostare i centri direzionali e produttivi fuori dai confini trasferendoli -insieme con know how e capitale- nel paese “attaccante”.
Se queste operazioni dovessero concretizzarsi in manovre speculative sul sistema bancario che detiene quote significative del nostro debito pubblico sovrano, o in scalate nell’azionariato o nel controllo dei processi operativi di imprese che lavorano nel campo delle infrastrutture strategiche, si capisce come il tema acquisisca una valenza che supera il campo delle singole politiche di settore per entrare nel terreno della politica di sicurezza nazionale.
Oggi noi stiamo immettendo nel corpo vivo dell’Italia risorse importantissime e mai viste nel recente passato.
Da un lato abbiamo il dovere di impedire che esse diventino la benzina per l’alimentazione della malavita endogena che, controllando importanti filiere produttive e disponendo di liquidità elevata, ha nelle mani gli strumenti per operare in senso negativo.
Dall’altro dobbiamo essere consapevoli che possono innescarsi fenomeni di ingerenza dall’esterno per condizionare l’impiego delle risorse pubbliche del Recovery Plan e distrarre i fondi destinati all’Italia in altri luoghi.
Se tutto ciò ha un senso, occorre tirare qualche conclusione.
Anzitutto, l’assoluta emergenza di una intelligence economica italiana. Non disporre di uno strumento specifico in questo contesto significa essere ciechi nel momento in cui il sole illumina il mondo.
E poi, soprattutto, se abbiamo capito che oggi la sicurezza nazionale si snoda su pilastri come energia, finanza ed economia, spazio cibernetico, aerospazio e industria della difesa, allora questi settori non possono più governati come a sé stanti, senza un coordinamento e senza un’idea generale.
Essi devono essere ricondotti ad una “Strategia della sicurezza nazionale”, preliminare e precettiva per ogni scelta di settore, perché ciò che accade all’interno di questi comparti tocca da vicino la vita di tutti noi, come singoli e come comunità.
Facciamolo ora. Perché poi sarà tardi!

Tim? Per Borghi (Copasir), è l'ora dell'intelligence economica. O sarà troppo tardi

L’Italia tra “Piano di Ricostruzione” e fondi strutturali di coesione ha sul tavolo almeno 400 miliardi in 6 anni. Non ci vuole molto a capire che ciò porterà un deciso aumento del rischio di azioni a carattere speculativo o predatorio su asset industriali o finanziari strategici. Serve un coordinamento generale

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