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La bellezza di Licorice Pizza (2021) di Paul Thomas Anderson, ognuno la può cercare dove vuole. Nella scenografia che ci ridà le vie, i locali con i flipper, i vestiti, gli interni degli uffici (quelli minimali in cui si allestisce una campagna elettorale per un consigliere che ambisce a sindaco), le cucine e le camerette degli appartamenti popolari della middle-class anni Settanta, di una America di provincia. Con l’aiuto, ovviamente, del digitale che nelle “ricostruzioni” ci offre, scioccandoci, il “vero storico” assoluto.

Oppure, nella splendida recitazione di Alana Haim (la venticinquenne sognatrice, Alana Kane: cognome-omaggio a Orson Welles?) innamorata ma discreta, super decisa nelle svolte della vita (si veda come guida un track a marcia indietro, alla Steven Spielberg!). Prestazione attoriale che si specchia nell’altra sorprendente performance del comprimario, Cooper Hoffman (nella finzione, il quindicenne Gary Valentine, folgorato da quella ragazza più “grande”) abile nel trasformare il suo fisico in carne, inizialmente goffo, in movimenti plastici, forse cubisti, persino belli (quel diciannovenne Cooper, non dimentichiamolo, è figlio d’arte del compianto Philip Seymour Hoffman, Ubriaco d’amore, 2002, P. T. Anderson).

O, magari, nella capacità di tratteggiare, con due tocchi, la crisi generazionale post-sessantotto, le tensioni padri-figli e il raffreddamento della fede nei rituali, evitando pistolotti e scene inutilmente isterico-drammatiche.

Ma il regista Paul Thomas Anderson, oltre che acchiapparci per la sua regia volutamente ricca di piani-sequenza (verrà studiato, eccome!, nelle scuole di cinema), come quello incipitario con Gary che segue Alana, rimorchiandola, nell’ high school dove ella lavora, ci sorprende per altro: per il suo racconto-non-racconto. Nel senso che cerchiamo di indovinare come procede la storia, ma ne rimaniamo continuamente spiazzati. Una sceneggiatura che immette leggeri spostamenti progressivi, robbegrillettiani, del “piacere del testo”, annullando i tracciamenti mentali di chi siede in sala. Il quale cerca di figurarsi dove voglia parare questa vicenda di due ragazzi che si incontrano e poi la vita li separa momentaneamente e, di nuovo, eccoli riuniti dai micro-accadimenti di una cittadina di provincia, San Fernando. Tra situazioni e figure imprevedibili e sociologicamente dimenticate dai libri di storia: qui si accenna al problema dell’amore gay da affrontare con difficoltà in una piccola comunità; là di una vecchia star che salta con una moto (è la parte di Sean Penn) in quelle gare notturne, illuminate a strappi dai falò, alla James Dean; più in là la vendita, a domicilio, di rivoluzionari materassi ad acqua; per tacere delle file di auto bloccate lungo le strade, a secco di carburante, a causa della guerra e della crisi del petrolio (quanto attuale: qui un altro carrello è un chiaro omaggio al Jean-Luc Godard di Weekend, 1967).

Certo, ci viene in mente American Graffiti (1973) di George Lucas e Licorice Pizza non è da meno nel raccontare la piccola-grande anonima provincia americana. Lì eravamo alla fine del liceo, anni Sessanta. Qui siamo fuori dal liceo, nella vita, anni Settanta, con la guerra del Vietnam che arriva ovattata, nei bar, come rumore di fondo, dalla Tv a colori e dai giornali. Licorice Pizza (titolo dovuto alla catena di negozi di vinile anni Settanta) entrerà nei top 100 dei film amati dai sociologi, anche grazie alle musiche di Sonny Rollins, Cher, Donovan.

La delicatezza di Paul Thomas Anderson la ritrovi, semplicemente, quando ti fa rivivere, a te europeo, quegli anni in una cittadina americana come se fosse la tua città, il tuo Paese. Senza lacrime facili o sguaiataggini. Senza nudi da tappezzeria o inservibili scene da palestra erotica. La poesia di Licorice Pizza, film da Oscar, sta tutta in quel primo bacio adolescenziale, rohmeriano, delicato, come il soffio di uno zefiro primaverile, tra una venticinquenne e un sedicenne, decisamente più maturo della sua età, da guadagnarsi la fiducia di una ragazza diversa dalle altre.

Licorice Pizza, un American graffiti di oggi. Da Oscar

Ricordare gli inizi degli anni Settanta tra ingenuità e coraggio adolescenziali e giovanili, sogni, frizioni padre-figli, messa in discussione della pratica religiosa. Tutto con una scenografia incredibilmente vera (anche digitale) e una recitazione superlativa di due attori volutamente non “belli da cartolina” ma straordinari. Questo è “Licorice Pizza” (2021) di Paul Thomas Anderson, un “American Graffiti” del duemila

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