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Lo scoop fatto dal bravissimo Eli Lake di Bloomberg dà realtà a diverse speculazioni: gli Stati Uniti stanno facendo pressioni per risolvere quanto prima la crisi in Sudan, dove la componente militare del sistema transizionale (che dovrebbe portare il Paese alle elezioni nel 2023) ha sciolto qualsiasi istituzione e preso il potere ponendo il primo ministro Abdalla Hamdok sotto arresto. Nello specifico, scrive Lake che il capo del dipartimento Medio Oriente del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brett McGurk, starebbe negoziando con Tahnoun bin Zayed al-Nahyan, consigliere per la Sicurezza emiratino, per riportare Hamdok al potere e ripristinare la road map decisa due anni fa – dopo la rimozione del regime di Omar Bashir.

Questi sforzi sono parte di un sistema di pressione che Washington ha messo in piedi sia in forme dirette, tagliando fondi stanziati per complicare la strada ai golpisti, sia attraverso organismi come la Banca mondiale o l’Unione Africana (che ha escluso il Sudan golpista da ogni meccanismo condiviso come forma sanzionatoria). L’interesse è alto perché nel Paese vivono 44 milioni di persone in condizioni economiche e sociali precarie (con diverse forme di sensibilità di carattere umanitario), perché il progetto di democratizzazione del Sudan era simbolico per l’Africa, e perché il dossier sudanese ha ripercussioni dirette su un’area delicatissima, il Corno d’Africa.

L’angolo orientale del continente rappresenta il punto di collegamento tra Europa e Oceano Indiano, dunque verso oriente. Dal Sudan, posto in mezzo al Mar Rosso, passano le rotte commerciali che risalgono dall’Est del mondo verso Suez, dunque verso il Vecchio Continente, o che dall’Europa scendono verso l’Oriente. È per questo che la Russia ha individuato Port Sudan come punto di aggrappo per una base militare extraterritoriale dal valore prettamente geostrategico; per la stessa ragione la cinese China Harbour Engineering ha messo in piedi nella città portuale di Haidob un progetto per creare un hub regionale della Belt and Road Initiative.

Dopo la caduta di Bashir, che ha visto i Paesi del Golfo come gli Emirati Arabi (ma anche l’Egitto) aumentare la propria influenza in Sudan sul lato militare, anche la Turchia ha cercato di mettersi al fianco di Khartum. Non più tardi di due mesi fa, il presidente del Consiglio supremo sudanese Abdel Fattah Al-Burhan (colui nei giorni scorsi ha annunciato lo scioglimento del governo e imposto lo stato di emergenza) era ad Ankara per firmare protocolli d’intesa nei settori energetico, finanziario e militare. I turchi parlano con i sudanesi per crearsi spazi da negoziatori nelle crisi che riguardano la piana di al Fashaga, la diga Gerd, la guerra nel Tigray.

Basta citare queste situazioni per comprendere come mai il Sudan abbia guadagnato così tanta attenzione all’interno dell’agenda americana in questo momento – con il segretario di Stato che ha più volte mandato messaggi per chiedere distensione e risoluzione delle crisi negli ultimi giorni. L’area è tra l’altro un interesse diretto dell’Italia, che è presente militarmente nel Corno d’Africa con la base di Gibuti e vede nella regione che scende dal Nordafrica al Sahel e che taglia dal Golfo di Guinea al Corno, un “unicum” come lo aveva definito il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Davanti a questo, la Farnesina ha recentemente espresso preoccupazione per quanto accade a Khartum, chiedendo che “si possa tornare al più presto allo spirito del processo di transizione democratica in Sudan”.

La crisi sudanese arriva per altro a cascata dopo quella che si è prodotta in Mali e ancora prima in Ciad, testimonianza che l’instabilità politica è ancora una problematica cruciale che riguarda l’Africa – che si unisce a quelle di carattere umanitario, o securitario, economico, climatico e se vogliamo sanitario. Un continente le cui potenzialità di espansione sono enormi, sotto stretta attenzione delle grandi potenze, che però ancora non trova la strada per emancipazione e stabilità. L’Africa è cruciale per l’interesse globale snocciolato durante il G20 che in questi giorni l’Italia ospita, e allo stesso tempo è “un convitato di pietra”, come lo ha definito su Repubblica Marco Minniti, presidente della Fondazione Med-Or.

Per questo, il governo Draghi ha deciso di invitare l’Unione africana alle riunioni dei grandi (per ora) della Terra, dimostrando sensibilità nei confronti di quella che è la propria area di proiezione diretta – parte del Mediterraneo allargato – ma anche, come detto, a quella che è componente imprescindibile per molte delle grandi tematiche che riguardano il mondo. Da quelle climatiche, di cui l’Africa ne soffre gli effetti più di quanto ne produca, a quelle riguardanti la sicurezza. Come visto in altre riunioni di Roma, quelle in cui si è riunita mesi fa la Coalizione internazionale per la lotta all’Is, l’Africa è il centro di attecchimento privilegiato delle istanza jihadiste del Califfato, e resta un terreno fertile per al Qaeda e altri gruppi armati, per esempio. Crisi come quella sudanese non possono che moltiplicare certe problematiche.

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