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Una delegazione di top funzionari dell’amministrazione statunitense è in viaggio per l’Africa in quella che è la più grande attività politico-diplomatica messa insieme dagli Usa nel continente dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Joe Biden. La visita è guidata da Jon Finer, vice consigliere per la Sicurezza nazionale: con lui Dana Banks, assistente speciale del presidente e direttrice dell’ufficio Africa del National Security Council e Michael Gonzalez, vicesegretario di Stato con l’incarico di seguire il quadrante africano. Ossia, il gotha di Washington sulla macro-regione. La prima tappa sarà la Nigeria, poi la Guinea Equatoriale, infine la Mauritania. Negli stessi giorni, Molly Phee, l’assistente del segretario di Stato per gli affari africani, sarà in Ghana e Burkina Faso. Tutto praticamente contemporaneo al viaggio in Sudan di Jeffrey Feltman, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa.

I dossier in campo sono tanti. In Nigeria, la principale democrazia africana come sottolinea la nota della Casa Bianca che racconta la visita, si parlerà di cambiamenti climatici (e di transizione energetica, visto il ruolo nigeriano nel mondo degli idrocarburi africani), di terrorismo (con metà del Paese infestato da gruppi jihadisti anche ascrivibili all’Is) e di sicurezza sanitaria (3,5 milioni di vaccino Pfizer sono stati inviati dagli Usa). In Guinea il tema centrale è la sicurezza marittima invece, col golfo omonimo che è una delle zone di attività dei pirati che si muovono lungo le rotte atlantiche e contro cui anche la Marina italiana è impegnata – ma il Golfo di Guinea, bagnato anche dalle coste nigeriane, è pure ricco di idrocarburi. In Mauritania gli incontri ruoteranno attorno al ruolo che Nouakchott gioca come paese ospitante del Segretariato del Formato G5 Sahel (che raccoglie i Paesi della regione saheliana, molto importante per il quadro securitario del Mediterraneo allargato).

Mentre la dimensione sicurezza è quella più volte citata nei documenti che raccontano la visita (come sempre, per evitare che ne esca una lettura di eccessivo coinvolgimento) la presentazione delle riunioni nigeriane dà il senso generale dell’interesse. Abuja è raccontata come un partner con cui discutere di “progressi democratici” e “rules of law”. È un wording preciso che serve per mandare un messaggio all’interno – ai cittadini americani: come dire, parlano il nostro stesso linguaggio –  e all’esterno, agli altri attori internazionali, sia alleati che rivali. Ai primi l’input è sulla continuità degli interessi in campo, quelli della sognata Lega delle Democrazie che dovrebbe essere motore delle relazioni politiche estere della Washington di Biden. Con gli altri serve per marcare un distacco netto.

La Nigeria è un paradigma utile in cui il Washington Consensus è forma di politica economica e di politica estera davanti alle attività di rivali strategici caratterizzati dall’autoritarismo, nel caso la Cina (ma anche la Turchia, con la visita statunitense in contrasto con quella, sempre in questi giorni, del presidente Recep Tayyp Erdogan). Gli investimenti cinesi in Nigeria sfiorano i 10 miliardi di dollari, i più alti nel continente, e si compongono di due aree di libero scambio, la Lekki Free Trade Zone e la Ogun-Guandong Free Trade Zone. Qui gli interessi cinesi si concentrano sulla produzione, compresi i materiali da costruzione, mobili, cibo e bevande, imballaggi in cartone e plastica, e (e questo è paradigmatico) le società cinesi hanno iniziato a sostituire quelle nigeriane, nonostante il 70 per cento dei dipendenti siano locali.

Di più: il management delle ditte operanti in quelle aree di free trade è quasi esclusivamente cinese. Esempio di come la penetrazione spinta dal Partito/Stato sia pervasiva. Ancora: i pochi dirigenti nigeriani provengono dagli Istituti Confucio, dove l’attività svolta va anche oltre la formazione tecnica, toccando (plasmando?) la sfera del pensiero politico. Differentemente gli Stati Uniti tendono a porsi come un partner fondato sulla libertà, su collaborazioni pubblico-privato, insomma su quel sistema che caratterizza le democrazie, gli stati di diritto. La partita in corso è quella tra modelli.

Ad agosto, il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari ha scritto un op-ed sul Financial Times in cui promuoveva il “Brand Nigeria”, dicendo ai lettori che il suo Paese avrebbe guidato la “guerra al terrore” dell’Africa in cambio di investimenti esteri in infrastrutture. Dal Paese passano molte delle dinamiche terroristiche africane, come detto, e le attività di Africom sul posto sono concentrate da tempo, con azioni mirate e campagne di addestramento alle truppe locali. Ma dietro a questa presenza c’è dell’altro, Buhari lo sa.

La Nigeria ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina nel 2018 per integrarsi nell’infrastruttura geopolitica Belt and Road Initiative (Bri). Più recentemente, la Cina ha approfittato dell’instabilità petrolifera nigeriana legata al crimine e al terrorismo, investendo miliardi di dollari nel petrolio per stabilizzare le linee di approvvigionamento. Dal punto di vista militare statunitense questa cosiddetta “guerra politica” crea ciò che notoriamente al Pentagono chiamano una “gray zone” in cui le aree tradizionalmente pensate come economiche e civili sono armate.

L’analista Kaley Scholl dell’Assistant Secretary of the Navy for Research, Development and Acquisitions ha per esempio raccontato come in una simulazione, il 91° Civil Affairs Battalion si è coordinato con il 3° Gruppo Forze Speciali con l’obiettivo (nel wargame) di scoprire le attività di un conglomerato industriale cinese attivo in Nigeria con l’obiettivo di costruire un porto di acque profonde; opera da fare nel giro di un mese come parte della Bri. Nella simulazione, le psy-ops organizzate dagli statunitensi hanno respinto i cinesi.

Scholl sostiene che “le operazioni della zona grigia cinese stanno erodendo la legittimità degli Stati Uniti e sfidando l’ordine mondiale basato sulle regole liberali”, e non solo in Nigeria. Sotto quest’ottica, il Paese africano diventa un’altra pedina nella nuova partita a scacchi con cui si gioca il confronto sino-americano. Come Taiwan nell’Indo Pacifico, le sovrapposizioni nigeriane tra Washington e Pechino possono diventare aree di frizione tettonica in Africa. Altre riguardano il Sahel e ovviamente il Corno d’Africa, dove i cinesi sono presenti anche militarmente con una base che guarda al corridoio di passaggio tra Oceano Indiano e Mediterraneo.

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