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Più dura lo “status quo”, più la Corea del Nord andrà avanti nel suo programma missilistico – e nucleare. Il messaggio lo ha inviato il ministro degli Esteri sudcoreano, Chung Eui-yong, parlando dal Palazzo di Vetro e rivolgendosi molto più che direttamente agli Stati Uniti. Quando parla di “status quo”, il capo della diplomazia di Seul intende questa fase attuale dei (non) rapporti tra Washington e Pyongyang – fase che segue quella in cui l’amministrazione Trump, e soprattutto il presidente Donald Trump, avevano cercato di chiudere un qualche accordo.

Se Trump voleva un deal per dimostrare all’elettorato di essere in grado di trovare un’intesa con uno dei grandi nemici dell’America – intesa da capitalizzare in sede di Usa2020 – Joe Biden nella prima parte della sua presidenza ha cercato di ignorare il problema. La tattica era quella di non dare troppa attenzione a Kim Jong-un e provare a mantenere la situazione sospesa, ma poi, prima i test missilistici del satrapo del Nord, e poi le lamentale dell’alleato del Sud hanno portato nuovamente alla cronaca i guai della penisola.

Negli stessi giorni, Kim ha annunciato, nel suo discorso durante la sessione annuale dell’Assemblea suprema del popolo, che le relazioni formalmente interrotte con Seul sarebbero state presto ripristinate, ma ha aggiunto di non fidarsi di Washington. Una linea già annunciata dal delegato nordcoreano alle Nazioni Unite, che poco prima dell’intervento del ministro Chung aveva accusato l’amministrazione Biden di ostilità – giocata, secondo l’inviato di Kim, anche spingendo la Corea del Sud a portare avanti esercitazioni congiunte. La propaganda di Pyongyang cerca di incunearsi nella fase non eccezionale che segna le relazioni tra gli Usa e il Sud.

Già ai tempi di Trump, l’accusa verso Seul era quella di non partecipare adeguatamente alle spese della (sua) difesa. Gli Stati Uniti hanno nella parte meridionale della penisola un contingente, la US Force Korea, che conta circa 32mila uomini, e secondo il presidente repubblicano Washington doveva ricevere dai contribuenti sudcoreani un pagamento per quella presenza contornata da sistemi anti-missile come il costoso Thaad. Con Biden le relazioni si sono sistemate – anche grazie a un’empatia maggiore col presidente Moon Jae-in – tuttavia la Corea del Sud è formalmente esclusa dalle due grandi attività strategiche statunitensi nella regione di suo interesse: il Quad e l’Aukus.

Seul è aggiornata del dialogo tra Cina, Usa, India e Giappone tanto quanto dell’alleanza militare in costruzione tra Australia, Usa e Regno Unito, ma non ne è parte – sebbene potrebbe esserne il tassello mancante. Davanti a questa assenza, il Sud fa sentire la sua presenza su un dossier complesso come quello del Nord – che disturba Biden, il quale vorrebbe concentrarsi sulla Cina, attraverso quelle due strutture multilaterali, piuttosto che rincorrere le mattane tattiche di Kim. Comportamento, quello dei sudcoreani, che ha fatto innervosire Washington, a giudicare dalla risposta alle dichiarazioni del ministro che un funzionario statunitense ha affidato “off-the-record” al Washington Post: non è vero che non siamo seri nel trattare con Kim, è lui che non risponde alle nostre aperture, ha detto.

Kim che a sua volta si sente tagliato fuori dalle dinamiche e dalle attenzioni statunitensi e cerca la via del contatto diplomatico attraverso l’unica leva che può usare: quella che lancia missili con cui dimostra che il suo paese ha raggiunto una competenza militare di livello. Davanti a questo, Biden vuole evitare figuracce: ossia vuole evitare di ritrovare la sua foto che stringe la mano a Kim come immagine di un articolo che racconta di nuovi testi missilistici – o atomici – di Pyongyang.

Tre giorni fa, il satrapo nordcoreano ha mostrato il suo ultimo gioiello tecnologico: un missile ipersonico testato verso il mare orientale che fa entrare il suo Paese in una cerchia ristretta di potenze (Usa, Russia, Cina) dotate di tale arma. Il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, parla di maggiori “prospettive di instabilità e insicurezza”; Pyongyang risponde al rafforzamento sudcoreano. Seul ha ottenuto dagli Stati Uniti l’uso di missili balistici convenzionali lanciati da sottomarini, unicità assoluta, e ha avviato contatti con i francesi per un ipotetico acquisto di altri sommergibili – Parigi doveva venderli all’Australia prima di essere scavalcato dall’offerta americana di vettori nucleari contenuta nell’Aukus (altra forma di distanza da Washington, con la notizia del contatto franco-coreano arrivata per bocca dell’ambasciatore francese a Seul nei giorni in cui lo scontro Usa-Francia per lo sgarbo australiano si surriscaldava).

In ballo c’è anche una dichiarazione di cessazione della guerra del 1950-53 che è stata proposta da Seul durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite (la guerra è tecnicamente ancora aperta, e a questo si lega la presenza americana in Corea del Sud). La proposta ha mosso Pyongyang a riaprire le relazioni, sebbene il rappresentante all’Onu abbia definito l’offerta “prematura” (anche se “interessante e ammirabile”). L’amministrazione Biden ha detto fin dall’inizio che avrebbe incontrato i funzionari nordcoreani sempre e ovunque, senza precondizioni, per discutere della denuclearizzazione. Pyongyang insiste sulla revoca delle sanzioni statunitensi mentre rivendica il diritto di sviluppare il suo programma di armi nucleari, che il leader nordcoreano considera un deterrente all’aggressione degli Stati Uniti. Sulla denuclearizzazione restano enormi distanze.

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