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Non chiamatele divisioni. La parola d’ordine, da quelle parti, è “confronto interno”. Trovare un leghista che dica la sua a microfoni accesi sul caso Morisi e la gestione del partito di Matteo Salvini è un’impresa. E tuttavia la stoccata rifilata al leader da Giancarlo Giorgetti con un’intervista esplosiva a La Stampa ha suonato davvero un campanello d’allarme.

Nel suo sfogo il vicesegretario ha detto in verità quel che tanti della vecchia guardia sussurrano da settimane. Che la Lega e il centrodestra rischiano grosso a Roma, Milano e Torino. Che i flirt no-Vax e gli inseguimenti meloniani nel centro-Sud, a lungo andare, stufano chi al Nord deve fare i conti con imprenditori, liberi professionisti, insomma il partito dello status quo, quelli che su Mario Draghi e i fondi europei un po’ ci hanno scommesso.

Giorgetti scuote, ma non rompe. Non è nel suo stile voler spaccare il partito né tantomeno attaccare il segretario, anzi. Un generale, ma prima di tutto un soldato. A quattro giorni dalle amministrative, a preoccupare semmai è il contorno. Perché gli sbuffi a cuore aperto del ministro sono condivisi da una fetta non più così minoritaria nel partito.

È stata un’escalation. A far traboccare il caso Durigon e la scelta di un suo fedelissimo per succedergli come sottosegretario al Mef, l’avvocato romano Federico Freni, che ha sorpassato all’ultimo i due leghisti in pole per Via XX Settembre, il ligure Edoardo Rixi e il veneto Massimo Bitonci. Ora l’ultima goccia, l’inchiesta su Morisi, guru digitale e braccio destro di Salvini, diventato negli anni un consigliere potente e non amato da tutti. Se le comunali si dovessero rivelare un flop per il centrodestra, e i sondaggi oggi non lo escludono affatto, quel vaso rischierebbe di rompersi.

Intanto il malcontento al Nord corre di sezione in sezione, e si iniziano a preparare le truppe per la resa dei conti al prossimo Congresso federale. Già, ma quando si fa il Congresso? Ad oggi non c’è l’ombra di una data. Forse perché, sussurra un parlamentare lombardo, Salvini teme di andare alla conta. Intervistato da Repubblica, Paolo Grimoldi, ex segretario nazionale della Lega in Lombardia e prima fila del Carroccio dal 1991, si pone il dubbio: “Non so se Salvini pensi a un congresso federale dopo il voto. Di certo dovranno celebrarsi i congressi locali: ma per un problema organizzativo, non politico”.

Il problema è politico eccome, garantisce chi lo conosce. Grimoldi, vicinissimo a Giorgetti, entrato in segreteria lo scorso febbraio, è una vera autorità fra i militanti lombardi, conquistati negli anni da commissario. Al Congresso potrebbe presentarsi con ambizioni serie, se non fosse che viene rimandato di continuo dal “Capitano” a data da definirsi. Poi c’è Andrea Crippa, giovane vicesegretario monzese con grande presa sul territorio. È in buona con Salvini, ma è anche irritato dalle voci che raccontano Durigon in lizza per sfilargli il posto in segreteria.

La Lega lombarda in questi giorni è una vera pentola a pressione. Sarà per questo che dalle prime pagine dei giornali è scomparso il Veneto di Luca Zaia. Il “Doge” si tiene lontano dalla mischia, lavora alle amministrative battendo il territorio. Pochi giorni fa era a fianco di Salvini in un comizio nel trevisano. Prima di passargli il microfono, lo ha spruzzato da cima a fondo di disinfettante, alla faccia dei covid-scettici.

Nelle sezioni venete, comunque, non si respira l’aria tesa di Milano, Bergamo, Varese (dove è in corsa un candidato giorgettiano doc, Matteo Bianchi). Anche se gli equivoci non mancano. A Verona, ad esempio, Salvini e il vicesegretario Lorenzo Fontana hanno ripreso i contatti con l’ex sindaco Flavio Tosi. Un sondaggio interno gli attribuisce un consenso monstre in città, il 26%. Si fa strada l’ipotesi di una sua lista civica per le elezioni in primavera. Per il momento però Zaia frena, “non mi risulta niente di ufficiale”.

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