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Cosa deve fare Silvio Berlusconi per, volendo usare le sue parole come riportate dai giornali, “non deludere” chi continua a credere in lui? Andare fino in fondo con la candidatura al Quirinale, facendola uscire dall’umbratile ambizione per portarla fino agli scrutini salvo poi rischiare di vederla schiantare sul muro dell’ insufficienza numerica; oppure ritirarsi dimostrando senso della realtà ma pure consapevolezza di un ciclo che inesorabilmente si avvia al tramonto?

Chissà: ancora pochi giorni e si capirà. Nel frattempo fioccano le ricostruzioni e i retroscena, le voci dal sen fuggite, le malmostosità e gli sgambetti veri o presunti.

Quel che non c’è mai stato e mai ci sarà è il beau geste, la rinuncia a favore di un altro che o troppo sembrerebbe una abdicazione o ancor più si trasformerebbe nel definitivo declino. E forse proprio qui sta il punto. Mandare Silvio al Quirinale è un progetto che cova da almeno un ventennio e Augusto Minzolini, che oggi soffia fortissimo in quelle vele da direttore del Giornale, già quando da cronista frequentava il Transatlantico caldeggiava l’esito come l’unica strada per togliere al centrodestra che aveva indossato i panni della governabilità il tappo del suo Fondatore. Progetto giudicato inverosimile allora e, nonostante gli sforzi e la determinazione del Cav, rimasto tale anche cinque lustri dopo. Forse alla fine riuscirà nell’ennesimo miracolo perché sottovalutarlo è l’errore più grande e in quel caso ancora una volta si farà beffe dei suoi tanti nemici. Tuttavia è innegabile che l’affanno è evidente e mai come adesso la distanza tra le (residue) capacità dell’ex premier e il traguardo agognato appaiono siderali. E la questione del “tappo”, per uno schieramento potenzialmente maggioritario nel Paese, resta in tutta la sua problematicità.

Berlusconi non contempla la rinuncia ma la moltiplicazione dei pani e dei pesci nonché dei voti dei Grandi Elettori è fuori dalla sua portata. Molti spiegano che comunque vada il Signore di Arcore esce vincitore perché se non ce la fa lui può determinante la vittoria di un altro. Lettura con qualche fondamento ma anche di impronta malinconicamente consolatoria. Forse è più vero il contrario, e cioè che comunque finisca Berlusconi avrà più perso che vinto.

Per capirlo, bisogna compulsare non il pallottoliere del Quirinale bensì le mosse dei suoi alleati. Non parliamo dei centristi di Coraggio Italia per i quali l’addio di Berlusconi è politicamente linfa vitale e progettuale. Ma Salvini che annuncia una proposta per il Quirinale alla vigilia delle votazioni e Giorgia Meloni che rivendica che in ogni caso FdI non potrà essere esclusa dalle decisioni, testimoniano della volontà del centrodestra, comunque strutturato, di avere dignità politica e candidature all’altezza della situazione, ci sia o no il Cav a fare ombra. Per cui: se Silvio vince il suo azzardo, il centrodestra che si ristrutturerà avrà legittimazione a puntare a Palazzo Chigi dopo il lavacro delle urne avendo messo il suo esponente  più longevo e significativo in una posizione necessariamente arbitrale e meno politica.

Se al contrario il Cav dovesse vedere la pallina della roulette  fermarsi sullo zero, la sua a quel punto obbligatoria rinuncia non avrebbe le caratteristiche della nobiltà testamentaria quanto le stimmate della definitiva giubilazione. E anche il quel caso il centrodestra dovrebbe riorganizzarsi a partire da ciò che resterebbe di Forza Italia, ma senza più l’ipoteca di un nume tutelare. Obiezione: ma a quel punto i voti per vincere le elezioni si dissolverebbero come neve al sole, no? Forse. Ma forse no. Gli elettori che non vogliono vedere prevalere la sinistra comunque sceglierebbe chi rimane. E sparendo il Moloch berlusconiano, anche il centrosinistra sarebbe costretto a ristrutturarsi.

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