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In merito alle questioni del proselitismo islamico in Europa, dove alcuni Paesi (Belgio, Francia, Regno Unito, eccetera) hanno larghe minoranze di fedeli musulmani – che, secondo molti, dovrebbero amerikanizzarsi con cappelli da sceriffo, minigonne e riducendo la fede ad app per smartphone – vanno fatte alcune precisazioni in merito all’ignoranza che conduce giornali, televisioni e social network a non capire assolutamente cosa sia l’Islām – religione che non guarda alle razze ma mira all’universalismo del Dio di Abramo.

Il diritto musulmano è una scienza giuridica di antichissima tradizione fondata sul sacro Corano. L’Islām è sistema religioso, politico e giuridico di una realtà che è un tutt’uno: dogmatica, morale, rituale, attinente al diritto privato e pubblico (secondo le nostre categorie romanistiche).

Un tutto, come si diceva, scaturente dalle medesime fonti sacre e che porta il nome complessivo di šarī‘a (via diritta rivelata da Dio), la quale, fondandosi sull’Antico e Nuovo Testamento (profeti dell’Islām: Adamo, Abramo, Mosè, Gesù e Maria, Muhammad), si può “tradurre” con correttezza in legge religiosa d’origine divina.

Ciò è di assoluta importanza e va tenuto presente – una peculiarità dell’Islām – che questa religione regola, con precetti positivi minuziosissimi, ogni manifestazione della vita dei credenti, anche in quegli àmbiti che potrebbero apparire i più lontani dal campo della religione, secondo i parametri del laicismo.

La scienza del diritto (‘ilm al-fiqh) secondo i dottori della legge musulmana (fuqahā’, sing. faqīh), ha una prima bipartizione nelle fonti del diritto (usul al-fiqh, sing. asl al-fiqh): il Corano, la Sunna (ahadīt, sing. hadīt: detti del Profeta), l’ijmā‘ o consenso della Comunità (umma) e il qiyās o analogia.

La šarī‘a, a sua volta, si distingue in ‘ibādat e mu‘āmalat. La prima accoglie i cinque pilastri della fede: accettazione di Dio, preghiera quotidiana, elemosina legale, digiuno e astinenza sino al tramonto nel mese di Ramadān (9°), pellegrinaggio alla Mecca e ai suoi dintorni nel mese di Dû l-Hijja (12°). La seconda copre tutti gli altri aspetti della vita sociale, economica e politica della comunità, e possono adattarsi alle esigenze varianti dei tempi e dei luoghi, a condizione che i risultati non si allontanino dalla parola e dallo spirito della šarī‘a medesima.

Il professor Giorgio Vercellin (1950-2007) ricordava che questo punto gli occidentali hanno sempre fatto finta di non vedere, per interessi contingenti, prima d’espansione coloniale – nel cercar d’imporre loro le proprie leggi e sfruttare i territori – e poi di tentata assimilazione interna (leggi annullamento dell’individualità nazionale e fideistica), e in “sostanza dunque il mondo musulmano, e in particolare il Vicino Oriente islamico (che, oltretutto, nei manuali non vi è traccia alcuna della presenza di numerose e attive comunità cristiane ed ebraiche in quei territori nel corso dei secoli), viene descritto come dotato di una storia autonoma e degna di attenzione solo in un passato remoto. Non a caso le pagine su Muhammad e i suoi immediati successori seguono i ben più copiosamente descritti Persiani – leggi Achemenidi –, Babilonesi, Assiri, Fenici, ecc. L’Islām e il mondo musulmano vengono cioè presentati su uno stesso piano “archeologico” (e perciò privo di evoluzione fino a oggi) alla pari degli antichi Greci e Romani. […] Il nodo vero è che la Società degli Storici Italiani ha annoverato il “mondo musulmano”, per così dire, automaticamente come parte del ‘mondo antico’”.

Esso, invece, è contemporaneo e presente. I musulmani sono uomini e donne di fede, e per loro la religione è anche pura giuridicità. L’Islām non è solo una confessione ma una cultura, una civiltà multicontinentale e trasversale, un modo di vivere in cui la relazione con la divinità è spirituale e temporale al contempo.

La storia del pensiero occidentale, dall’epoca di Lumi a oggi, è contraddistinta dal conflitto fra fede e scienza: è una costante perdita di terreno delle aree di influenza della religione a favore della parte egemonizzata dalla tecnologia.

In ciò intendiamo secolarizzazione, razionalizzazione, relativismo, ecc. La manifestazione più eclatante di tutto questo è il riconoscimento del diritto al “credere” ma anche al “non credere”. Tout court è il diritto all’ateismo, che la giurisprudenza musulmana – la quale, come abbiamo visto, s’identifica con la fede – non ammette e che l’Occidente cerca di imporre con la violenza delle armi statunitensi e col zuccheroso e stomachevole buonismo e politicamente corretto europei. E checché ne dicano alcuni sociologi di buona volontà, l’Islām non distingue fra religione e politica, fra confessione e diritto.

La tendenza che si viene consolidando nel mondo islamico consiste infatti in una riaffermazione sia di normative che di princìpi generali sciaraitici, affermatisi o in via legislativa o quale prassi nei Paesi musulmani e islamici, ossia i luoghi da dove provengono i migranti.

Nella tradizione islamica il principio che l’Islām in quanto tale debba essere insieme religione e mondo (dīn wa-dawla wa duniyā), e che il termine laicismo (‘ilmaniyya) è sinonimo di ateismo, materialismo, permissivismo, decadenza morale, ecc., è basilare specie nei Paesi alleati dell’Occidente (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, Pakistan, Qatar, eccetera), e in quelli che non lo sono; e in ognuno di essi è raramente permessa la presenza istituzionale di altre fedi: e questo dal punto di vista meramente giuridico.

L’illusione con cui persone povere di spirito (a far loro un complimento) e altre inseguono il cosiddetto multiculturalismo, non ha una base fondata nell’esperienza e nel credo dell’ulteriore parte. Per cui immaginare un musulmano che presti fede ai canoni del sistema liberale – ateo in quanto trasformatore della fede da valore a scelta soggettiva oppure ad “evangelica” soluzione sociologica e assistenzialismo per disperati o non abbienti – è un’ingenuità esiziale: un suicidio storico da parte di una società che non ha più nulla da offrire e di un sistema di produzione che sta portando il pianeta alla distruzione.

Qualsiasi persona, cristiana, musulmana o ebrea, che ponga un suo proprio punto di vista – o attraverso uno scritto oppure con un discorso, che sussumono il suo pensiero – è evidente lo ritenga giusto e vero, e non accetti per principio un’opinione contraria o differente.

È in pratica il parallelo di un occidentale, che per ragioni varie, si trasferisca in un Paese musulmano ed ex abrupto rinneghi il suo modo di pensare e vivere. E a volte non si comprende se tale candida speranza sia il frutto dell’ignoranza dell’occidentale o, peggio, assoluto dolo di pochi in quanto una manodopera e badanti a buon mercato e profitto fanno molto più comodo di etica, rispetto e sicurezza dei nostri cittadini.

Da ciò si evince che non è l’Occidente a tollerare la presenza musulmana in Europa, bensì il contrario. In una società come la nostra – in pieno degrado sociale e ambientale (cfr. Laudato si’ di papa Francesco che chi scrive ha letto), che ha rinnegato il sacro e ha mescolato i generi; che si basa su consumismo, servitù al danaro, esasperazione del profitto, corsa all’inutile, trionfo del tecnologicismo, gara ai piaceri, riduzione a zero del ceto politico; che ha ridotto la donna a icona sessuale e il senso dell’eroico a cinematografia – una società nella quale il pensiero liberal-liberistico genera imbarazzanti scelte – le persone che credono, compresi pure cattolici, cristiani in toto, ebrei e musulmani qui stanti, sono invece esse persone a tollerare il sistema che le ospita.

E lo dimostra che le criminali efferatezze di cui siamo stati testimoni il 13 novembre 2015 sono state portate avanti da un’infinitesimale percentuale di musulmani presenti nel nostro Continente, per giunta cittadini europei e non emigrati, ossia figli giuridici di quegli Stati ove hanno commesso delitti. Il perché l’abbiano fatto non sta a chi scrive illustrarlo. In un millennio e mezzo non era mai accaduto ciò che sta avvenendo da 16 anni in qua, da quando le bombe “umanitarie” hanno iniziato a devastare l’Afghanistan ieri dei Talebani e oggi ancora dei Talebani.

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