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Dopo 133 anni la Gazzetta del Mezzogiorno, storico quotidiano pugliese, tra i più diffusi nel meridione, chiude i battenti, mettendo in cassa integrazione a zero ore i 144 dipendenti, in prevalenza giornalisti e un po’ di poligrafici. Adesso si spargeranno, con dovizia di contristamenti, comunicati di solidarietà, condoglianze di rito, grida e sussurri della politica, sempre in prima fila nei funerali, di ordini professionali e sindacati. “Si spegne una voce di libertà”, “il sud da oggi è più povero”, “ È il frutto avvelenato della Rete” eccetera. Qualche giorno di rumore, poi la difficile lotta con l’afa di agosto e tutta la collezione delle varianti del covid spegneranno l’onda già fievole. Si attenuerà perfino il sospiro di questa vicenda pugliese.
Un quotidiano con una storia così densa è anche un bene culturale del territorio. Certo: è un bene particolarissimo come può esserlo un giornale, che assume anche il valore, costituzionalmente rilevante, di strumento della democrazia pluralista. Gli anglosassoni addirittura gli attribuiscono il ruolo di “watch dog”, cane da guardia del potere, disegnando poi per il giornalista una funzione a metà tra la professione e l’istituzione, perimetrata da un reticolo di codici deontologici. Insomma: qualcosa di più che un mestiere.
Un quotidiano come la Gazzetta, allora, è al tempo stesso bene culturale (e identitario), strumento di democrazia e impresa economica, che deve saper mantenere le sue posizioni sul mercato. Anche quando, nella follia imperante della disintermediazione a tutti i costi imposta dalla Rete, la platea dei lettori paganti si restringe a qualche migliaia, perché piace di più cercare le fake che soddisfano l’aspettativa del nostro facile palato nei social, a gratis (che poi non è mai così, ma lasciamo stare per il momento).
Quando si chiude un quotidiano come la Gazzetta, allora, si svolge un plot che somiglia a quei romanzi di Agata Christie: cercate il colpevole tra quelli che si affollano al funerale del de cuius, magari scoprendo che è più di uno. Parlando allora di responsabilità, diciamo che certamente l’imprenditoria pugliese qualche domanda se la deve porre: non ci si può proporre come emblema di un raro dinamismo nell’emisfero meridionale del suolo italico e non essere in grado di provare a far convergere in un’unica direzione le forze per mantenere in piedi la testata regionale.
En passant va ricordato che i guai odierni trovano origine dal default – generato da vicende processuali non ancora concluse – del vecchio editore Ciancio, che è salito a Bari dalla sua Sicilia a metterci i danari, visto che l’impresa locale latitava. Ne’ la politica può appuntarsi sui risvolti della giacca orgogliosi stemmini: certo non può farsi imprenditrice per editare il giornale, e tuttavia non ci è mai parso di scorgere baluginii politici che non fossero la caccia allo spazio personale riservato sul giornale, magari assumendo iniziative volte a incoraggiare la cooperazione di forze per consentire la vita della testata.
Un bene culturale del territorio, appunto. E non abbiamo visto neanche particolari alzate d’ingegno da parte delle banche locali, che pure hanno dimostrato, alcune in modo del tutto traverso, grandi attenzioni all’impresa del territorio. Non all’impresa editoriale, evidentemente. Potremmo continuare – persino l’abitudine dei pugliesi a “passarsi” il giornale comprato da uno tra 40 lettori ha avuto la sua parte in questo default – ma ci fermiamo qui. Di fronte ad una realtà mesta e irrefutabile: oggi finisce la Gazzetta del Mezzogiorno. Per favore niente coccodrilli ma, se possibile, opere di bene.

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Un quotidiano come la Gazzetta è al tempo stesso bene culturale (e identitario), strumento di democrazia e impresa economica, che deve saper mantenere le sue posizioni sul mercato. Le colpe delle imprese e della politica pugliesi nella fine dello storico giornale

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