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Nella tarda primavera del 2019 Tripoli era assediata dalle truppe dell’Esercito Nazionale Libico (Lna) del maresciallo Khalifa Belqasim Haftar, un ex generale di Gheddafi, esule negli Stati Uniti, autoproclamatosi comandante delle forze armate libiche e forte del sostegno della Camera di Tobruk, dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti e, con circospezione, dall’Arabia Saudita, dalla Russia e dalla Francia.

L’offensiva sulla capitale, che invece del previsto Blitzkrieg finì per trasformarsi in un protratto e sanguinoso assedio, apriva la terza fase della guerra civile scoppiata tra la fine del 2012 e il 2013. Se il maresciallo fosse riuscito nel suo intento, avrebbe avuto in mano le chiavi del forziere libico dal momento che controllare la capitale significa controllare la Noc e il Lia. Ironie di una guerra anomala, le due istituzioni hanno continuato a pagare per anni gli stipendi a miliziani, soldati e mercenari di tutte le parti in conflitto.

Prossimo alla caduta, il Governo di Accordo Nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj, sorto con il patrocinio delle Nazioni Unite e riconosciuto dalla comunità internazionale, chiese aiuto prima all’Italia (che glielo rifiutò), poi al Qatar e alla Turchia (che glielo garantirono, Ankara in cambio di un accordo sulle Zee utile ad intralciare il progetto energetico EastMed di Grecia, Egitto e Cipro).

L’arrivo a Tripoli dei generali di Erdogan permise al Gna di sopravvivere ma al costo di accendere un’ipoteca turca sulla Tripolitania, l’ennesima potenza straniera ad intervenire in Libia. Il richiamo storico, la riconquista di un vilayet ottomano, è scontato sebbene nessuno abbia ancora chiarito la qualità di questa presenza turca, se di tale si tratta, né la portata, rispetto ai mezzi disponibili, dei suoi obiettivi.

Lo stallo su Tripoli rese possibile riprendere i colloqui diplomatici all’interno della cornice della Conferenza di Berlino e di una parallela iniziativa delle Nazioni Unite che portò intorno ad un tavolo le principali formazioni militari in conflitto, sanando così uno dei principali errori dei precedenti tentativi: il mancato coinvolgimento nei negoziati, diretto o indiretto che sia, delle milizie più importanti.

La copertina del libro

Le due track negoziali permisero la nascita di un provvisorio Governo di Unità Nazionale a cui fu affidato il compito di raggiungere un accordo per redigere una Carta Costituzionale e traghettare il paese verso le elezioni presidenziali. Al momento in cui scriviamo queste righe, nessun accordo definitivo è stato ancora raggiunto. Ci sembra che non si possa negare la perversa logica che sta alla base della dinamica centro-periferia, al pari dell’artificiale natura dell’unità della Libia, e che si debba forse accettare l’impossibilità di restaurare uno status quo ante nell’immediato futuro. I diversi percorsi diplomatici, e financo militari, intrapresi erano destinati ad incagliarsi perché il paese rimane ancora un tassello di un più ampio processo di mutamento degli equilibri politici, sociali ed economici del Medio Oriente.

Parimenti, la diplomazia in Libia ha potuto applicare in maniera approssimativa e limitata i propri strumenti per via dell’assenza degli Stati Uniti dai vari momenti negoziali: il coinvolgimento americano, pur all’interno di un quadro multilaterale, avrebbe garantito quella forza necessaria al processo diplomatico affinché potesse cogliere qualche successo con maggiori garanzie di durata. A livello nazionale, l’ostinazione, certamente comprensibile e politicamente auspicabile, al mantenimento dell’unità del paese può inoltre aver procrastinato, se non ostacolato, l’applicazione di strategie localizzate, a livello di città e municipalità, per la pacificazione, la sicurezza e la distribuzione delle risorse dello Stato attraverso il coinvolgimento delle milizie e dei wujaha(dialetto libico che indica gli anziani delle tribù).

Mentre infatti le prime esercitano il monopolio sulla sicurezza locale, i secondi garantiscono la necessaria legittimità sociale e culturale, un argine non solo alla criminalità comune ma anche al diffondersi del fondamentalismo islamico. Non si può dimenticare, del resto, che tra il 2014 e il 2016 l’area di Derna cadde sotto il controllo dell’Isis. Comprensibilmente, i vari governi che si sono succeduti alla guida del paese, così come le potenze straniere lì presenti, sono stati finora restii ad applicare strategie localizzate che rischierebbero di favorire una partizione effettiva del paese. Partizione che potrebbe forse essere considerata accettabile se mascherata da un’anodina soluzione confederale che posponga la riunificazione effettiva ad un futuro non meglio specificato.

Quale che siano le soluzioni nazionali, crediamo nondimeno che le condizioni politiche e di sicurezza generali del Medio Oriente abbiano un impatto diretto sui tempi della soluzione della crisi: finché il sistema non avrà riassorbito gli shock prodotti dalle Rivolte e dalle Guerre Arabe verso nuovi e più stabili rapporti di forza, difficilmente la Libia potrà uscire dal caos in cui è precipitata. La crisi del petrolio, dunque dell’economia politica del mondo arabo, in conseguenza della pandemia di Covid-19 e il riallineamento in blocchi provocato dalla firma degli Accordi di Abramo – con Turchia, Qatar e Iran da un lato, Arabia Saudita, Eau, Bahrein e Israele dall’altro – rendono qualunque previsione in tal senso alquanto incerta.

 

Estratto dal libro “Gheddafi. Ascesa e caduta del ra’is libico” (Giubilei Regnani)

Libia, appunti (e moniti) in vista delle elezioni. L'analisi di Palma

Di Leonardo Palma

Pubblichiamo un breve estratto dal libro “Gheddafi. Ascesa e caduta del ra’is libico” (Giubilei Regnani) di Leonardo Palma. Due anni fa lo stallo del governo Serraj e l’ipoteca di Erdogan sulla crisi. Appunti (e moniti) in vista delle elezioni per il governo nazionale

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