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Tempo di cambiamenti in casa Meta, meglio nota come Facebook. Nei giorni in cui la whistleblower Frances Haugen incita l’Europa a imporre regole più stringenti sulla diffusione dei contenuti sulle piattaforme digitali, l’azienda leader nel settore dei social media ha preso una decisione radicale: dal 2022 non consentirà più agli inserzionisti di utilizzare migliaia di categorie sensibili, tra cui inclinazione politica, religione e orientamento sessuale, per fare pubblicità mirata.

Si tratta di “tag” prodotti dal nostro tracciamento online e consentono a Meta di calibrare le pubblicità dei propri clienti scientificamente. Ma lasciano anche aperta la possibilità di manipolare un utente sfruttandone i tratti più sensibili, con vaste ripercussioni personali, sociali e politiche. Motivo per cui Meta limiterà i tag utilizzabili dagli inserzionisti, anche al netto di azzoppare il proprio modello di business.

“La decisione di rimuovere queste opzioni di targeting dettagliato non è stata facile e sappiamo che questo cambiamento potrebbe avere un impatto negativo su alcune aziende e organizzazioni”, ha scritto l’azienda in un post sul suo blog.

Oggi la multinazionale è in pieno rebranding e l’ad Mark Zuckerberg parla di metaverso e svolta verso i giovani. Ma già a settembre Meta aveva annunciato misure per “ripulire” i propri social dai contenuti polarizzanti e politicizzati. Di recente ha fatto sapere di aver esteso il divieto di pubblicità sulle diete a tutti gli utenti, mentre il discorso pubblico si occupava della correlazione tra anoressia e utilizzo di Instagram in giovane età.

In sottotraccia traspare la consapevolezza di Meta di dover modificare il proprio modello di business per destigmatizzarsi prima che ci pensino i regolatori a suon di “clave” legislative. E dopo le rivelazioni di Haugen l’azienda è il capro espiatorio perfetto agli occhi dei regolatori che da anni spingono per limitare il potere di Big Tech. Anche se altri servizi con criticità documentate (come TikTok) non sono soggetti allo stesso scrutinio.

I prodotti Meta – Facebook, Instagram, WhatsApp in primis –  sono sulla graticola in seguito alle accuse di Haugen, secondo cui la multinazionale ha inseguito il profitto a scapito del benessere degli utenti. Le sue rivelazioni hanno acceso l’ennesimo faro sul pericolo insito negli algoritmi. Ma “questi problemi sono validi in tutta l’industria; gli algoritmi non sono intelligenti di per sé, lo sono quanto noi possiamo renderli tali”, ha detto a Politico.

Dunque la whistleblower sta esortando l’Unione europea a cavalcare l’onda per aumentare la pressione regolatoria sulle multinazionali americane e demandare alle piattaforme più trasparenza. Le leggi allo studio di Bruxelles (come il Digital Services Act, o Dsa) saranno replicate in altre nazioni, ha detto al Parlamento europeo, e avranno il potenziale di spingere le compagnie Big Tech a cambiare i propri sistemi.

Il momento è davvero cruciale, perché il Dsa e il Digital Markets Act sono al centro di una discussione accesa a Strasburgo e si registrano picchi di integralismo ideologico. Da una parte i “falchi” regolatori, guidati dall’europarlamentare Andreas Schwab, sembrano intenzionati a punire i giganti americani di Silicon Valley con misure soffocanti – tra cui l’abolizione della pubblicità mirata.

Dall’altra parte ci sono le aziende che se ne avvalgono o addirittura vi basano il proprio modello di business, soprattutto piccole e medie imprese che non possono permettersi grandi campagne pubblicitarie “a strascico”, ma possono trovare potenziali clienti in modo efficiente e non dispersivo. In Italia, buona parte dei parlamentari e dei regolatori sono d’accordo: abolire del tutto la pubblicità mirata non avrebbe senso. Bastano una serie di correzioni per evitare gli abusi, e a quanto pare le aziende si stanno mettendo in riga da sole.

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