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Chi l’avrebbe detto? La Polonia è sulla bocca di tutti. Le ultime vicende hanno trascinato la più moderna realtà politica dell’est al centro del dibattito europeo, fino a farne una vera e propria “questione”.

Nello scontro aperto tra Varsavia e Bruxelles c’è di mezzo un calderone di contraddizioni e nodi irrisolti, che costituiscono la propaggine di strategie e riposizionamenti geopolitici: la “russofobia rampante”, frustrazioni ataviche, l’interesse nazionale, la costante rivendicazione di autonomia dall’asse franco-tedesco, le politiche anti-immigrazione sintetizzate nell’edificazione di un muro al confine bielorusso, l’ancoraggio utilitaristico all’Unione europea, l’eterno conflitto tra interpretazione esasperata del concetto di sovranismo politico e il fondamentalismo giuridico del modello liberale, e l’imminente minaccia del voto anticipato.

Il 18 ottobre, Mateusz Morawiecki tenta, attraverso una lettera indirizzata al Parlamento Ue, alla Commissione e al Consiglio europeo, di tutelare i fondi del Piano di Ricostruzione Nazionale (Krajowy Plan Odbudowy), spegnendo definitamene la scintilla che, nei giorni precedenti, ha spronato migliaia di cittadini ad occupare le piazze polacche in difesa delle posizioni di Bruxelles.

“Desidero rassicurarvi sul fatto che la Polonia rimane un membro leale dell’Unione europea, un’organizzazione basata su Trattati comuni, istituiti da tutti gli Stati membri che hanno affidato una serie di competenze a istituzioni comuni e hanno regolato congiuntamente molti ambiti della vita attraverso il diritto europeo. La Polonia rispetta questa legge e riconosce il suo primato sulle leggi nazionali, conformemente a tutti i nostri obblighi ai sensi del Trattato sull’Unione europea”, scrive Morawiecki.

“Allo stesso tempo, tuttavia, desidero attirare la vostra attenzione su un fenomeno pericoloso che minaccia il futuro della nostra Unione. Dovremmo essere preoccupati per la graduale trasformazione dell’Unione in un’entità che cesserebbe di essere un’alleanza di Stati liberi, uguali e sovrani, per diventare invece un unico organismo gestito centralmente, guidato da istituzioni prive del controllo democratico da parte dei cittadini dei paesi europei”.

Ma se Mateusz Morawiecki ricorre ad escamotage per giustificare la sentenza del Tribunale Costituzionale polacco, la risposta di Ursula von der Leyen è talmente chiara che non lascia possibilità di scampo.

“Noi siamo preoccupati dell’indipendenza del sistema giudiziario polacco, perché l’immunità dei giudici è stata spesso rimossa, gli stessi magistrati sono stati rimossi dal loro incarico senza giustificazioni. Questo minaccia uno dei pilastri fondamentali dello stato di diritto. Noi abbiamo adottato diverse misure, proseguiremo un dialogo costante, ma purtroppo la situazione è peggiorata. Ed è un’opinione condivisa con la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La Commissione sta valutando attentamente la sentenza del Tribunale Costituzionale polacco, ma essa mette in discussione la base dell’Unione Europea e costituisce un guanto di sfida all’unità dei nostri ordinamenti giuridici”.

In breve, il governo polacco scivola e tenta di aggrapparsi a tutto pur di rialzarsi. Lo attesta l’intransigenza sfoderata da Morawiecki durante la seduta del Sejm, in cui si scaglia contro l’opposizione, e accantonata, in un battibaleno, per far posto ai toni pacati ed equilibrati rivolti all’interlocutore europeo.

Pur di sminuire le conseguenze legate alla sentenza del Trybunał Konstytucyjny, che riconosce la superiorità del diritto nazionale sull’ordinamento dell’Unione, il premier polacco punta l’indice contro i liberali di Donald Tusk e Rafał Trzaskowski, colpevoli di cospirare con “i colleghi tedeschi” nella realizzazione del Nord Stream 2, facilitando le mire espansionistiche di Vladimir Putin.

“Se sta ricorrendo al Nord Stream 2, significa che l’esecutivo di Varsavia ha esaurito gli argomenti”, risponde prontamente la presidente della Commissione Europea.

Le condizioni dettate dalle istituzioni dell’Unione sono inequivocabili; la Polonia potrà ricevere i soldi del Recovery (24 miliardi di euro di sovvenzioni e 12 miliardi di euro di prestiti preferenziali) solo dopo aver adempiuto a specifiche raccomandazioni riguardanti l’indipendenza della magistratura: eliminazione della Camera disciplinare della Corte suprema (Izba Dyscyplinarna) e reintegrazione dei giudici licenziati (ricordiamo il caso di Beata Marawiec).

Dopo le dichiarazioni provenienti dai ministri dell’esecutivo a guida “Diritto e Giustizia”, diretto dall’onnipresente Jarosław Kaczyński, che assicuravano variazioni inerenti ai poteri della Camera disciplinare, Donald Tusk  ha annunciato, nel corso di una conferenza stampa,  che solo a seguito della totale abolizione della Izba Dyscyplinarna chiederà ai colleghi europei che la Polonia non venga punita finanziariamente.

Così, Ursula Von Der Leyen garantisce che i valori europei non saranno messi a rischio, e non esita a far leva sulle potenziali opzioni che potrebbero essere utilizzate per far fronte all’ostilità del PiS (Prawo i Sprawiedliwość): il meccanismo di condizionalità, le procedure di infrazioni, l’articolo 7 e altri strumenti finanziari.

Tuttavia, Morawiecki continua a ribadire che la tanto vituperata sentenza del Tribunale non è un’eccezione nella storia delle diatribe giuridiche tra stati membri e Unione Europea, e cita ad esempio i casi delle corti di Germania, Francia, Italia, Spagna, Danimarca, Romania e Repubblica Ceca. Anche perché, ritiene il premier, la Corte costituzionale polacca si è più volte pronunciata sul primato dell’ordinamento nazionale su quello europeo, e tali sentenze non sono mai state impugnate dalla Commissione, in quanto il controllo della conformità del diritto internazionale alla costituzione di uno stato membro non viola il diritto dell’Ue.

“Nessun governo” continua Morawiecki “può ignorare le disposizioni dell’art. 4 della Costituzionale polacca, secondo cui l’autorità suprema nella Repubblica di Polonia appartiene alla nazione”.

È un botta e risposta senza precedenti, quello tra il premier polacco e la Presidente tedesca, quest’ultima tiene a ricordare: “Quando Karol Wojtyla tornò in patria come Giovanni Paolo II, stava cambiando la storia europea. La vittoria di Lech Walesa con un gruppo sparso di sindacalisti ha segnato l’inizio della caduta della cortina di ferro. Quando il presidente Lech Kaczyński ha ratificato il trattato di Lisbona insieme alla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, ha confermato l’impegno della Polonia per i nostri valori” . E in polacco chiude: “Polonia, tu sei e sarai sempre nel cuore dell’Europa! Viva la Polonia! Viva l’Europa!”

Al sempre più corposo fronte democratico avverso al governo si uniscono i socialisti europei e i verdi, tramite gli interventi di Iratxe García Pérez e Ska Keller, mentre il gruppo a trazione lepenista di “Identità e Democrazia” e i conservatori guidati da Ryszard Legutko e da Raffaele Fitto (FdI), accusano i progressisti di strumentalizzare la vicenda per cambiare le sorti dell’elezioni in Polonia.

Sicuramente, il ritorno alle urne in primavera non è più una voce di corridoio, ma una possibilità concreta, nonché un referendum tra gli alfieri di un Pol-in e i promotori (inconsapevoli) di una Pol-exit.

La Polonia del PiS si trova in un vicolo cieco: estremizzare la tensione con Bruxelles per consolidare un’alleanza elettorale con Ziobro e la fazione anti-europeista oppure adeguarsi alle richieste dell’Unione e mettere al sicuro le elargizioni economiche previste dal Recovery?

In entrambi casi, il partito di Jarosław Kaczyński, ha qualcosa da perdere. E questa volta, probabilmente, non basterà l’endorsement di Orbàn o l’appello al sentimento nazionale.

Di questo passo, l’attuale maggioranza si limiterà a “mangiare le brioches”, o meglio i bigos.

La Polonia con il bastone in casa e la carota in Europa. Non funzionerà

Il governo polacco scivola e tenta di aggrapparsi a tutto pur di rialzarsi. Lo attesta l’intransigenza sfoderata da Morawiecki durante la seduta del Sejm, in cui si scaglia contro l’opposizione accantonata in un battibaleno per far posto ai toni pacati ed equilibrati rivolti all’Unione europea

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