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L’obiettivo dei tre incontri africani – in Nigeria, Angola e Togo – di Recep Tayyp Erdogan è anticipare con un’azione diretta e operativa il Turkey-Africa Partnership Summit che si terrà a dicembre, e ancora prima la versione ridotta “Economy and Business” che ci sarà il 21 ottobre a Istanbul. La riunione, la terza del genere, è sede di dialogo, di scambio di opinioni, e piattaforma per la chiusura di affari e accordi, tra i Paesi del continente africano e quella Turchia a vocazione internazionale che il suo presidente sta progettando da tempo.

Nel mini-tour di questi giorni Erdogan è accompagnato oltre che dal ministro degli Esteri, da quelli di Energia, Difesa e Commercio, a spiegare con chiarezza le ragioni della visita, con il Foreign Economic Relations Board (Deik in acronimo turco) impegnato a organizzare meeting e l’ufficio di presidenza focalizzato nel costruire relazioni di carattere politico (Erdie ha parlato in Parlamento in Angola, per esempio).

“Le nostre relazioni con i Paesi africani non sono basate sul colonialismo e vogliamo avere successo insieme ai nostri fratelli e sorelle di tutto il continente”, ha detto il presidente turco. Rappresentazione plastica della volontà di Erdogan di esportare quello che alcuni studiosi definisco un “Ankara Consensus”, ossia un modello di riferimento per i Paesi africani alternativo a quello proposto dall’Occidente (il Washington Consensus americano) e al modello cinese che viene sempre più percepito come neo-imperialista.

L’attenzione turca all’Africa non è una novità: risale al 1998 il documento strategico “Opening up to Africa policy”, frutto anche del respingimento dell’Ue, che non intende(va) ammettere Ankara come stato membro. Dall’ingresso nel potere nel 2002, Erdogan ha semplicemente iniziato a dare spinta a questa proiezione internazionale, e ora questa spinta sta diventando più palese, dopo essere passata dal sostegno politico-identitario con cui il presidente turco che ha cercato — e cerca — di costruirsi il ruolo di difensore delle comunità islamiche del mondo – anche in Africa, cavalcando le Primavere arabe.

L’impegnò africano di Ankara è un mix di attività diplomatiche (con la presenza di missioni nel 90 per cento dei Paesi del continente); militari ( il campo TurkSom e le varie presenze meno pubbliche, ma anche il mondo dell’industria degli armamenti, vedere il trend in aumento che forniture turche, come i droni, stanno avendo soprattutto in Nordafrica), culturali e umanitarie (su tutti i ruoli svolti da TIKA, Fondazione Maarif e Istituto Yunus Emre); commerciali (l’aumento del volume degli scambi, destinato a toccare quota 50 miliardi in futuro).

Dal 2015, Erdogan ha incontrato i capi di stato e di governo di Somalia, Etiopia, Gibuti, Uganda, Kenya, Algeria, Mauritania, Senegal, Mali e Libia. “Vediamo il popolo africano come nostri fratelli, con i quali condividiamo un destino comune. Affrontiamo il loro dolore non con obiettivi politici, strategici e basati sugli interessi, ma completamente umanamente e coscienziosamente”, ha detto il presidente turco durante una visita a Dakar.

Il ricorso alla fratellanza – così come in altri contesti – è il principale vettore della comunicazione con cui Ankara intende spingere la propria presenza africana. È attraverso questo espediente retorico che Erdogan pone la Turchia sullo stesso piano dei Paesi africani, mostrandosi come essa stessa minacciata dall’egemonia delle grandi potenze, siano esse Usa e Ue, oppure Russia e Cina.

L’Africa è il punto di arrivo sud-occidentale della proiezione geopolitica turca. La profondità strategica che scavalca il Mediterraneo e crea i presupposti per la costruzione di una fascia di influenza ampia e protetta. Come la base somala (e altri vari collegamenti) danno garanzia lungo il Corno d’Africa, porta meridionale del bacino, così la presenza in Libia garantisce controllo sullo snodo centrale dello Stretto di Sicilia (ormai accesso mediterraneo più cruciale di Gibilterra, conteso per il passaggio dei cavi sottomarini e perché affaccio delle importantissime infrastrutture Nato siciliane).

Il tutto controllando con due mani il Bosforo, porta orientale del Mediterraneo ma anche accesso all’Africa per la Russia. Ecco, proprio quella Russia che Erdogan evoca come spauracchio davanti a dinamiche intra-Nato che soffre come ostili: l’accordo Usa-Grecia e quello Francia-Grecia, seguiti recentemente dall’ipotesi avanzata dal presidente turco sulla possibilità di usufruire di Mosca per l’approvvigionamento di sottomarini nucleari, sono un esempio. Si tratta di armamenti che i turchi acquistano di solito — in formato diesel-elettrico — da Berlino, dunque ambito Nato e integrabili con i sistemi d’arma dell’Alleanza.

Il cambio di fornitore avrebbe maggiore significato politico di quello che riguardò i sistemi per la difesa aerea S-400. Quei sottomarini sarebbero parte della proiezione militare nel Mediterraneo, vettore della profondità africana della strategia turca. Strategia che non nasconde competizioni con quella Ue e Usa,  basta pensare che sia Washington che Ankara individuano nella Nigeria il punto nodale per l’Africa sub-sahariana. Allo stesso modo fa la Cina però, e questo per gli americani diventa un elemento di dialogo (o di leverage) con i turchi nell’ottica del rivale comune. Un contesto, se Erdogan accetta paletti (al di là della retorica necessaria al mantenimento dello standing interno), da cui può uscire rafforzato col silenzio-assenso (anche questo al netto della retorica) di Washington.

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