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Israele ha deciso di non completare il ritiro delle proprie forze dal sud del Libano entro i 60 giorni previsti dall’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine – temporaneamente – al fronte di conflitto che dopo l’attacco di Hamas del 7 Ottobre si era aperto anche con Hezbollah.

L’ufficio del primo ministro israeliano ha confermato la decisione, facendo immediatamente salire la tensione in una regione già carica di incertezze. Il gruppo libanese, nonostante i colpi subiti proprio nello scontro con Israele, ha ancora un’ampia influenza nel Paese – che sta vivendo una delicatissima stagione con un nuovo presidente e un potenziale esecutivo in costruzione su equilibri altamente precari.

Hezbollah, che la principale organizzazione armata collegata all’Iran, ha avvertito che considererà la tregua “nulla e invalida” se Israele non rispetterà la scadenza, mentre a Washington la macchina diplomatica è in pieno movimento per evitare che la situazione precipiti.

Nelle ultime ore, l’amministrazione Trump ha intensificato i contatti con Beirut e Tel Aviv per trovare una soluzione che scongiuri una nuova escalation. Dal Libano, il governo ha già preso posizione definendo la decisione israeliana una violazione dell’accordo e ha chiesto ufficialmente l’intervento degli Stati Uniti per garantire il rispetto degli impegni presi. A Washington, il Consiglio di Sicurezza Nazionale ha affermato che una “breve estensione della tregua” è necessaria e che verranno coinvolti i partner regionali per garantire la stabilità.

L’amministrazione americana punta a conciliare le esigenze di sicurezza israeliane con la fragilità politica di Beirut, sostenendo il ritorno degli abitanti del nord di Israele nelle proprie case e offrendo sostegno al governo libanese.

Da Tel Aviv, la posizione resta ferma: Israele non ritiene di violare la tregua, sostenendo che il ritiro sia subordinato all’effettiva applicazione dell’accordo da parte dell’esercito libanese, garante del ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani – che secondo fonti israeliane ancora non è stato completato.

Per Israele dunque il processo di ritiro continuerà in coordinamento con Washington e la scadenza dei 60 giorni non è da considerarsi rigida, perché vincolata a una clausola – non scritta – di reciprocità. La sfiducia tra le parti è ciò che domina il contesto.

Fonti diplomatiche indicano che Tel Aviv ha assicurato agli americani di essere impegnata realmente e che la questione è tecnica quanto consequenziale: serve più tempo per completare il ritiro in sicurezza.

La tregua, negoziata a novembre dall’amministrazione Biden, era stata strutturata in modo da lasciare margini di manovra alla nuova amministrazione Trump, che ora si trova a dover gestire una situazione critica e a evitare che la tregua si trasformi in un nuovo focolaio di conflitto.

Ora resta da vedere se ci sarà un effettivo innesco di un “effetto Trump” su entrambi i lati: il nuovo presidente è stato molto chiaro nella sua volontà – pragmatica e transazionale – di evitare tensioni.

Dal fronte di Gaza, oggi quattro soldatesse israeliane catturate durante il massacro di ottobre 2023 sono state liberate nel quadro della tregua favorita dalla pressione statunitense dopo 15 mesi di guerra. Donald Trump rivendica il risultato del cessate il fuoco, anche se il processo è nato da una convergenza di interessi strategici con l’amministrazione Biden uscente. Considerato il contesto, un’operazione simile potrebbe verificarsi anche sul fronte libanese.

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