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La prima necessità per chiunque sia nella Chiesa è capire in cosa crede, e cosa annuncia. Questo annuncio non deve infatti sormontare l’idea che la fede cristiana sia una cosa assurda, per persone deboli, o sciocche, ma anche l’altro errore, pensare che Gesù sia un superuomo, un errore in cui cadono anche molti credenti, che cadono in questo modo in una sorta di ateismo. La Chiesa poi è un’arca di salvezza, che vive nei marosi della storia.

Sono questi due dei punti più rilevanti dell’omelia pronunciata questa mattina da papa Leone XIV, quel monsignor Prevost che è nato negli Stati Uniti ma evidentemente ha poco a che fare con il presidente in carica, quello che aveva tentato – direttamente o indirettamente – una offerta pubblica di acquisto sulla Chiesa cattolica, sperando di poter fare come facevano i cinesi, trasformandola cioè in una serie di Chiese patriottiche, legate ai poteri temporali (e nazionalisti). La netta impressione è che sola istituzione universale, globale, che Francesco ha reso ancor più tale, resta tale, non cede la sua identità allo “spirito del tempo”, come suol dirsi. Proprio no. Il linguaggio, i gesti, la storia di papa Leone sembra proprio renderlo impossibile. Piuttosto emerge a sorpresa il volto che presenta un’altra America, quello del nuovo papa, che come il vecchio proviene da una famiglia di migranti; cittadino statunitense ma anche cittadino peruviano, il Paese dove ha servito come vescovo missionario in sperdute diocesi e che poi ha conosciuto Francesco, il papa che lo ha portato a Roma per farne il potente prefetto della Congregazione per i vescovi. Questo esito inatteso, il papa americano ma anche sudamericano, che parla in spagnolo (la lingua declassata da Trump) nel giorno dell’elezione dalla loggia delle benedizioni, è certamente consapevole anche del malessere americano, degli operai bianchi ridotti a “spazzatura”, e ai quali sarà certamente ma diversamente (da Trump) vicino.

Le modalità dell’emersione improvvisa di Prevost quando casualmente incontrò Francesco non ci sorprendono, abituati a Francesco e al suo sorprendete modo di essere e fare. Questa trasformazione da vescovo in terra di missione ai confini del mondo a potente prefetto di un dicastero decisivo è il passaggio che ne ha fatto un papabile, ora papa. La domanda se sia davvero un bergogliano, che poi è la domanda che circola maggiormente in ambienti che non conoscendolo cercano di capirlo attraverso i suoi rapporti con il papa defunto, non può che partire da alcune similitudini e da una differenza evidente: sono entrambi figli di migranti, sono entrambi legati al Sud America e quindi a quella Chiesa che tanto ha influito sul suo predecessore. Ma se Bergoglio era un carismatico, Prevost ha fatto capire subito di non esserlo e non volerlo essere. La sua prima discontinuità rispetto al predecessore è stata il ritorno agli abiti rituali, alla mantellina rosso imperiale, tanto cara ai papi fino a Francesco, che ha fatto una scelta di “spoliazione francescana”, netta, evidente. Nel linguaggio, nel simbolismo vaticano questo è molto importante: la scelta francescana di Francesco non è la scelta di Leone XIV. La Chiesa ritorna, almeno parzialmente visto che ha indossato normali scarpe nere, non quelle rosse, nei suoi rituali e nella sua forma. Eppure nonostante questo papa Prevost a sorpresa già nella sua allocuzione di ieri ha citato la grande riforma di Francesco, quella che ha suscitato le maggiori resistenze: il cambiamento della Chiesa cattolica, da gerarchica e clericale in Chiesa sinodale. È questa l’indicazione enorme, forse quella più importante. Vuol dire Chiesa dove non “comanda” il clero, ma dove i laici e le laiche hanno lo stesso peso e quindi devono poter esercitare incarichi di gestione, anche a livello apicale. Una vera rivoluzione ecclesiale, che portando a nuove forme di partecipazione e coinvolgimento rappresenta – se attuata- una fortissima indicazione al mondo su come sarebbe possibile curare la democrazia, sfidando il paradigma tecnocratico e la democrazia come area riservata a pochi.

Il papa che si è voluto richiamare a quel Leone fondatore della dottrina sociale della Chiesa e che chiaramente ha nell’attenzione al mondo dei lavoratori, dei poveri, dei migranti, dell’ambiente ferito il filo diretto che lo lega a Francesco, non può che averlo anche nella predilezione per la pace “disarmata e disarmante”, quella indicata cinque volte nel suo primo discorso. Questa indicazione è quella cristiana, quella che spiega perché il Cristo superuomo è una deviazione ateista, l’indicazione contenuta nell’omelia odierna che sembra proprio colpire al cuore chi vorrebbe fare del primo papa americano il suo ventriloquo.

Le differenze con Francesco potrebbero uscire più chiare su altre tematiche, cioè sui cosiddetti temi sensibili, come se questi (pace, giustizia sociale, ecologia, universalità, sinodalità) non lo fossero. Appare possibile, forse probabile, ma per dirlo occorre attendere che Leone lo faccia nelle sue nuove vesti, perché le riserve che ha espresso su alcuni di questi argomenti (ad esempio sugli omosessuali) vanno valutate in base a quanto dirà da papa.

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