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La guerra tech fra Stati Uniti e Cina si sposta sotto gli oceani. Più ancora del 5G, c’è un fronte che vede surriscaldarsi la competizione per l’egemonia tecnologica fra le due potenze rivali: i cavi sottomarini. L’ultimo colpo arriva dalla Micronesia, nell’Oceano Pacifico, e porta la firma dell’amministrazione di Joe Biden.

Secondo quanto rivela Reuters, Washington è pronta a fare uno sgambetto a Pechino nella corsa al controllo dell’infrastruttura sottomarina. La Federazione degli Stati della Micronesia (Fsm), svelano due fonti, preleverà 14 milioni di dollari dall’“American rescue Plan”, il fondo da 1,8 trilioni di dollari stanziato da Biden per combattere la pandemia in America e all’estero, per costruire un nuovo cavo fra due dei suoi due quattro Stati, Kosrae e Pohnpei.

Dall’infrastruttura, spiega Reuters, saranno escluse aziende cinesi, a cominciare da Huawei Marines Technologies (Hmn),  l’ex unità cavi della cinese Huawei oggi di proprietà della connazionale Hengtong Group. Se il progetto andasse in porto, si tratterebbe del secondo colpo assestato dagli Stati Uniti alle ambizioni tech cinesi nel Pacifico.

A giugno i moniti americani, secondo cui la Cina userebbe i cavi sottomarini per spiare e rubare i dati che vi transitano, avevano congelato un altro maxi-investimento, l’East Micronesia Cable. Lungo 2000 chilometri e pensato per migliorare le comunicazioni fra le isole di Kiribati, Nauru e la Micronesia, il cavo era finito nel mirino di Hmn, che aveva presentato un’offerta da 72,6 milioni di dollari, inferiore del 20% a quelle delle competitor Alcatel, del gruppo finlandese Nokia, e della giapponese Nec.

Secondo Reuters, il nuovo cavo sottomarino finanziato dagli Stati Uniti si connetterà all’Hantru-1, un altro condotto collega all’isola di Guam, nel Pacifico. Quella dei cavi sottomarini è una delle frontiere più calde nella competizione tech fra Cina e Stati Uniti. Stando ai dati dell’Itif (Information technology & Innovation foundation), circa il 99% del traffico dei dati globali passa attraverso la rete di cavi subacquei, che si estende per circa 1,2 milioni di chilometri e ogni giorno è oggetto di transazioni finanziarie da 10 trilioni di dollari.

Un mercato che ha implicazioni di sicurezza non secondarie. Chi controlla l’infrastruttura fisica sotto gli oceani può potenzialmente trafugare i dati tramite l’installazione di backdoor. Questa l’accusa mossa dal Dipartimento della Difesa americana alle aziende cinesi del settore, a partire da Hmn. Gli investimenti di Pechino nei cavi sottomarini, tassello chiave della cosiddetta “Digital Silk Road”, il braccio tech della nuova Via della Seta, “potrebbero aiutare la Cina a ottenere tecnologia straniera e facilitare la censura politica”, si legge in un recente rapporto.

Dubbi giustificati anche dalla natura societaria di queste compagnie. Da una parte per i rapporti ambigui della dirigenza con il Partito comunista cinese. È il caso del fondatore di Hengton Group, controllante di Hmn, spiega uno studio dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr): Cui Genliang è infatti un ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare e fino al 2013 è stato membro del Congresso nazionale del popolo.

Dall’altra la struttura di queste società che spesso, tramite una rete di consorzi, riescono ad essere al tempo stesso fornitori e operatori dell’infrastrutture di rete. Oltre alle ragioni di sicurezza e concorrenza, dietro al rinnovato pressing americano ci sono ragioni strategiche: la proprietà cinese dei cavi sottomarini può infatti presentare un problema per le strutture militari americane presenti nel Pacifico. Come il “Reagan Test Site”, un’area per esperimenti missilistici che si estende per 2 milioni di chilometri quadri ed è sotto il controllo dello US Army Kwajalein Atoll (Usaka).

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