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Le dichiarazioni del ministro Renato Brunetta che annunciano la fine dello smart working nella Pubblica amministrazione e il ritorno al lavoro in presenza ravvivano il dibattito sugli effetti di questa modalità di lavoro su produttività e qualità della vita. Come è noto lo smart working esisteva anche prima ma la pandemia è stata una gigantesca esercitazione forzata di lavoro a distanza che ha modificato le nostre abitudini e ci ha indotto a riflettere.

Da un punto di vista potenziale, poter giocare su tre registri di relazioni invece di una non può non generare significativi aumenti di produttività. Un tempo le relazioni sul lavoro erano solo faccia a faccia, in presenza. Oggi possiamo interagire con i colleghi di lavoro in modalità webinar (faccia a faccia a distanza) e whatsapp (senza compresenza nello stesso luogo né sincronia temporale). Poter usare la modalità webinar e quella whatsapp vuol dire ridurre enormemente i costi e tempi di spostamento. Pensiamo soltanto a quanto è costoso e vincolante interagire e prendere decisioni soltanto in incontri in presenza faccia a faccia.

Sincronizzare le agende è difficile e gli stessi ritmi ed occasioni d’interazione sono necessariamente più rarefatti. Non è un caso che il settore privato che è orientato al profitto abbia scelto come strategia ottimale (ora che è possibile tornare alla presenza al 100 percento) quella di una robusta quota di lavoro smart consentendo ai propri dipendenti di scegliere tra le due e le tre giornate di lavoro in remoto e modificando la stessa struttura e natura degli uffici. Ha ragione Brunetta o le aziende private?

La risposta è che possono anche aver ragione tutti e due perché l’opportunità e l’efficacia dello smart working dipende ovviamente dalla tipologia di lavoro. Lo smart working non si applica ovviamente per quei tipi di lavoro che richiedono un’interazione faccia a faccia col cliente (il chirurgo, il commerciante), la produzione in una catena di montaggio (l’operaio) o il lavoro in agricoltura e ovviamente le attività sportello della pubblica amministrazione.

Ma si applica molto bene ad imprese di servizi e al lavoro di staff che non richiede contatto faccia a faccia coi clienti. Lo smart working non può e non deve applicarsi ovviamente al mondo della scuola dove l’interazione in presenza tra docenti e studenti e tra gli studenti tra loro è essenziale per il processo di crescita e di formazione. Detto questo resto assolutamente convinto che, in non pochi settori, l’uso ottimale delle tre modalità d’interazione consente di ridurre gli enormi costi e sforzi di coordinamento per la simultaneità spazio-temporale dei gruppi di lavoro che in molti casi non è assolutamente necessaria. E ci rende sempre più padroni del nostro tempo e capaci di conciliare vita di lavoro, vita di relazioni e transizione ecologica.

Certo lo smart work evoluto richiede cambiamenti importanti nei rapporti sindacali (diritto di disconnessione ma libertà di orario di lavoro) e segna il passaggio da un controllo formale sul cartellino e sull’orario di lavoro ad uno sui risultati. E questo rende molti settori, tra cui soprattutto quello della pubblica amministrazione, non sempre pronti a questa trasformazione. Il dibattito resta affascinante ed aperto mentre la rivoluzione è tuttora in corso e, credo, ha cambiato per sempre le nostre vite.

Smart working sì, smart working no. Il rebus di Brunetta visto da Becchetti

L’opportunità e l’efficacia dello smart working dipende dalla tipologia di lavoro. Quindi Brunetta che sta riportando i dipendenti della Pubblica amministrazione in ufficio ha ragione, ma non del tutto, scrive l’economista Leonardo Becchetti

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