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Era il 2006 quando Henry Kissinger spiegava all’editorialista del Washington Post David Ignatius che il dilemma strategico cui l’Iran si trovava di fronte era rappresentato dallo scegliere se diventare una causa o una nazione. La via per l’integrazione pacifica con il resto dell’umanità e la partecipazione al mantenimento dell’ordine globale passava necessariamente, secondo l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, attraverso l’abbandono della prospettiva messianica (la “causa”) e delle ambizioni imperiali offerte alle genti diverse da quella persiana ma presenti nell’orizzonte spaziale geopolitico che Teheran considera come proprio.

Il giovane Heinz, del resto, era nato in quella Baviera che qualche anno prima aveva dato i natali al movimento nazionalsocialista, guidato da uno spregiudicato ex militare proveniente dalla vicina cittadina austriaca di Linz, e per suo tramite si era fatta “causa” per il resto delle genti germaniche al fine di restituire loro la dignità imperiale perduta. L’essere scampato allo sterminio che ne seguì assieme agli approfondimenti teorici intrapresi una volta approdato negli Stati Uniti – e rinominatosi Henry – fece sì che l’idea westfaliana dell’equilibrio tra potenze che rinunciano adiventare una causa come prerequisito della coesistenza pacifica tra le stesse non lo abbandonasse fino alla fine dei suoi giorni.

A distanza di quasi vent’anni da quel colloquio di Kissinger col prestigioso quotidiano della Capitale, la dicotomia causa/nazione torna al centro della riflessione attraverso due episodi apparentemente privi di correlazione tra loro ma in realtà da leggere nel medesimo contesto.

Il primo. Tutt’ora prostrata da una bruciante sconfitta strategica originata, non meno che dalle impareggiate capacità operative dei servizi dello Stato ebraico, dalle fratture presenti all’interno dei propri apparati, Teheran ha dato recentemente il via ad un programma di espulsione di circa 4 milioni di afghani residenti nel suo territorio e responsabili, a detta degli ayatollah, di una crescente ondata di criminalità ma soprattutto di aver fatto intelligenza col nemico. Si tratta – a evidenziarlo è stranamente solo il Times di Londra – di una delle espulsioni più massicce mai occorse nel corso della storia.

Posto di fronte, quindi, al dilemma se serrare i ranghi e tappare le falle securitarie oppure mantenere i legami con una popolazione allogena attorno ad un unico destino, l’Iran non esita, forse perché senza alternativa, a optare per il ripiegamento nazionalistico, per giunta nei confronti di una parte non trascurabile della propria popolazione. Il prezzo da pagare, però, è un segnale rivolto alle altre genti, in primis gli azeri presenti nella parte settentrionale del Paese verso cui Baku tenta di esercitare attrazione col beneplacito di Gerusalemme, che il tempo della blandizie nei loro confronti con l’intento di radunarle attorno a un’unica missione storica potrebbe essere terminato e con esso l’integrità dello Stato persiano.

Il secondo episodio riguarda l’intervento che il vicepresidente americano ha tenuto qualche giorno fa presso il californiano Claremont Institute (“American Statemanship for the Golden Age”), dove il cattolico di ascendenza Scotch-Irish JD Vance, in polemica con chi a suo dire vuole regalare i privilegi della cittadinanza a immigrati illegali, sostiene che l’America non è “un’idea” bensì un “luogo particolare, con un popolo particolare e un insieme particolare di credenze e stili di vita”. In altre parole – per tornare alla terminologia kissingeriana – l’America è una nazione, non una causa.

Si tratta di un sentimento ormai largamente diffuso, sebbene con accenti diversi, nelle fila del Partito Repubblicano e, anzi, la presa del potere da parte di Trump all’interno dello stesso nonché la sua elezione a Presidente si devono principalmente alla sua capacità di interpretarlo a partire dall’America profonda ma sempre più anche nelle regioni costiere. Se ne rinvengono ampie tracce, inoltre, una volta depurato dell’enfasi sull’eccezionalismo americano e sulla sicurezza dei confini, anche in una parte crescente dell’universo democratico, accomunato al partito avversario proprio dalla volontà di staccare gli Stati Uniti dal resto del mondo.

È una disputa unicamente filosofica? Non esattamente. Scegliere un corso piuttosto che un altro ha ripercussioni dirette sull’agire concreto nei vari quadranti. Così, porsi come nazione e non come causa consente agli Stati Uniti di intervenire, ad esempio, a supporto di Israele solamente attraverso un’azione molto circoscritta nello spazio, nel tempo e nelle modalità operative quale quella messa in campo nella Guerra dei 12 Giorni.

Allo stesso tempo, l’abbandono volontario e completo della prospettiva ‘causale’ non sembra essere un’operazione possibile, come dimostrato dal fatto che, pur in una fase storica di ripiegamento su sé stessi, gli Stati Uniti avanzano pretese territoriali su Canada e Groenlandia, rinominano il Golfo del Messico in “Golfo d’America”, recuperano influenza sull’istmo di Panama e aumentano la diffusione del credo evangelico lungo tutto il Sudamerica, in particolare in Brasile e in Argentina. Forse perché anche le potenze avversarie, tra le quali proprio la Guerra dei 12 Giorni ha messo in dubbio che esista un patto di mutuo soccorso, faticano a prendere una posizione tra causa e nazione.

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