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“Sostenibilità ed ecologia sostenibile diventano concetti centrali per il futuro, le aziende devono fare un bilancio di sostenibilità in cui questi criteri siano quantificati, i grandi investitori guardano alla sostenibilità come elemento essenziale, il futuro dei nostri figli nei prossimi decenni dipenderà dalle scelte che facciamo oggi. Queste sono le chiamate alle quali dobbiamo rispondere adesso. Non c’è più tempo”. Queste le parole del nuovo ministro dell’Ambiente Roberto Cingolani alla Conferenza preparatoria della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile del 3 marzo scorso, nel solco della tradizione europea sulla tutela dell’ambiente.

Il Green Deal, approvato dalla Commissione europea nel dicembre 2019, rappresenta il motore principale per la ripresa dell’economia sostenibile e la tutela dell’ambiente. L’Europa punta a diventare il primo continente al mondo a emissioni zero, entro il 2050.

Il costo della transizione verso la neutralità climatica era stimato, solo per il primo decennio, in almeno 1.000 miliardi di euro, di cui poco più della metà finanziati dal bilancio europeo, di cui circa 115 miliardi dai governi nazionali e la restante parte, circa 280 miliardi, dal settore privato. (Per ricostruire l’Europa dopo la pandemia da coronavirus si prevede uno stanziamento di oltre 1.800 miliardi di Euro, incluso il programma temporaneo Next Generation Eu: il più ingente pacchetto di misure di stimolo mai finanziato dall’Ue).

In questa prospettiva, la “green finance” acquista un’importanza fondamentale: è indispensabile che il flusso dei capitali pubblici e privati sia convogliato in via primaria verso investimenti sostenibili sotto il profilo Esg (Environment social governance). Ma cos’è un investimento Esg sostenibile? La risposta non è affatto scontata.

Il rischio di green washing, ossia la pratica di pubblicizzare come verdi o sostenibili prodotti e attività che in realtà non lo sono affatto, è cresciuto enormemente. A livello globale, non solo europeo, la regolamentazione sullo sviluppo sostenibile è molto frammentata poiché è basata quasi esclusivamente su prassi di mercato e iniziative di stampo privatistico. In assenza di definizioni condivise e di sistemi di reporting standardizzati, chiunque può sostenere, più o meno legittimamente, di essere ecosostenibile.

Per queste ragioni, già nel 2018, Bruxelles aveva avviato un programma di armonizzazione regolamentare articolato in diversi pacchetti. Il primo è costituito dal c.d. Regolamento Eu sulla Tassonomia, entrato in vigore nel luglio 2020, che nelle ambiziose intenzioni del legislatore comunitario costituirà il primo sistema al mondo per la classificazione delle attività economiche ecosostenibili.

In estrema sintesi, il Regolamento Ue sulla Tassonomia è lo strumento per stabilire se un’attività economica è o non è ecosostenibile. Il “bollino verde” può essere attribuito solo a seguito dopo la “disclosure” la verifica della sussistenza di due requisiti indispensabili. Il primo consiste nel contributo al raggiungimento di uno dei seguenti obiettivi:
1. la mitigazione dei cambiamenti climatici, attraverso l’eliminazione o la riduzione delle emissioni di gas serra;
2. l’adattamento ai cambiamenti climatici, attraverso l’eliminazione o la riduzione degli effetti negativi o dei rischi connessi ai cambiamenti climatici;
3. l’uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine;
4. la transizione verso un’economia circolare;
5. la prevenzione e il controllo dell’inquinamento;
6. la tutela e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

Perché un’attività sia considerata “allineata alla tassonomia” (in altri termini, abbia il bollino verde), bisogna accertare l’ulteriore sussistenza del secondo requisito: l’attività non deve arrecare un danno significativo agli altri obiettivi.

Supponiamo, per semplicità, che un’impresa elettrica sia proprietaria di una centrale a carbone (20% del fatturato), di 4 impianti fotovoltaici (complessivamente 60% del fatturato) e di un impianto eolico (20% del fatturato). Ipotizziamo anche che quest’ultimo sia oggetto di pesanti contenziosi legali, perché arreca disturbo alle abitazioni circostanti e fa fuggire la fauna avicola locale a causa del rumore generato da turbine di vecchia generazione. In base al primo criterio, bisognerà escludere la generazione elettrica dalla centrale a carbone (che non contribuisce al raggiungimento di nessun obiettivo ambientale) e invece includere gli impianti alimentati da fonti rinnovabili che contribuiscono al raggiungimento del primo obiettivo. Applicando il secondo requisito, si deve però escludere l’impianto eolico poiché lo stesso, in concreto, arreca un danno significativo agli obiettivi n.5 e n.6. In conclusione, solo il 60% dei ricavi aziendali risulterebbero ecosostenibili.

Il Regolamento sulla Tassonomia introduce inoltre un nuovo sistema di classificazione delle attività economiche:
1. “Low Carbon”, caratterizzate da emissioni di CO2 nulle o modeste (es. le attività di riforestazione, la generazione di energia da fonti rinnovabili);
2. “Transitional”, caratterizzate da emissioni di CO2 elevate, purché l’impresa abbia assunto un impegno di riduzione delle stesse a zero, entro un ragionevole periodo di tempo (la riconversione di sistemi di trasporto pubblico da combustibili fossili a elettrico, altre riconversioni industriali);
3. “Enabling”, che consentono il miglioramento delle performance ambientali di altri settori o riducono gli impatti negativi sull’ambiente (la produzione di turbine eoliche, l’installazione di finestre a vetri multipli a bassa trasmittanza termica).

La redazione dell’elenco definitivo con la ripartizione delle diverse attività è demandata alla regolamentazione di secondo livello. Ed è qui che si è verificato il primo scontro tra i governi degli Stati Membri, preoccupati per le rilevanti ricadute sulle imprese nazionali. Basti pensare che le imprese non allineate alla tassonomia potrebbero trovarsi di fronte alla drammatica scelta di dover avviare una costosa riconversione industriale (per puntare a diventare almeno Transitional) o uscire dal mercato, in conseguenza delle difficoltà di accesso alle risorse finanziarie pubbliche e private.

In base a un recente studio indipendente commissionato dal ministero dell’Ambiente tedesco avente ad oggetto le società quotate appartenenti ai principali indici azionari europei, meno di un terzo dei ricavi deriva da attività sostenibili (Dax 27%, Cac40 22% EuroStoxx50 20%) mentre oltre il 77% delle società quotate analizzate ha un allineamento alla tassonomia inferiore all’1%.

La regolamentazione di secondo livello – elaborata da un gruppo di esperti nominati dalla Commissione, Technical Expert Group on Sustainable Finance (TEG) – doveva essere approvata in questi giorni, entro marzo. Tuttavia, alla fine del 2020, il blocco degli Stati orientali (Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia e Ungheria) ha presentato migliaia di emendamenti e ha minacciato di porre il veto. Tra i temi più delicati figurano l’estrazione dell’idrogeno da fonti non rinnovabili e la produzione elettrica delle centrali a gas naturale. Su quest’ultimo punto la proposta del TEG prevedeva che solo le centrali a gas con emissioni inferiori a 100 grammi per kWh sarebbero rientrate tra le attività Transitional. A fronte di questo stallo, la Commissione ha deciso di rinviare la discussione e uno dei pilastri del Green Deal, di fatto, è bloccato da un braccio di ferro che potrebbe protrarsi per mesi.

Gli altri pilastri della nuova regolamentazione europea, possiamo solo accennarlo, sono rappresentati dalla Legge sul Clima, dal Regolamento sulla finanza sostenibile (Sdfr), dalla Non financial reporting disclosure (Nfdr), dall’iniziativa della Banca centrale europea sulla disclosure prudenziale dei rischi Esg (Capital requirement regulation), dagli standard per i Green Bond europei.

Tutte queste iniziative vengono portate avanti dalle istituzioni europee con grande determinazione, incontrando maggiori o minori ostacoli lungo il cammino. Ad esempio il testo finale della legge sul clima, che fissa l’obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 alla data intermedia del 2030, rimbalza ormai da mesi tra Parlamento e Consiglio d’Europa (divisi tra una riduzione del 55% o del 60%). Anche in questo caso, si segnalano le posizioni più conservatrici della Polonia e dell’Ungheria, comprensibilmente preoccupate dalle conseguenze di tali misure sull’industria pesante, sull’agricoltura e sugli allevamenti intensivi.

È indubbio che il costo del Green deal, oltre che economico, è soprattutto politico (si pensi, in Francia, alla reazione dei gilets jaunes a fronte delle nuove accise sui carburanti). Nondimeno, il percorso è segnato ed è ben collocato nell’agenda politica del governo italiano e della Ue. Servirà una buona dose di saggezza da parte di tutti i soggetti coinvolti per condurlo in porto.

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