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Il cambiamento radicale nella posizione americana sulla tassazione dei profitti digitali dà nuovo slancio alle negoziazioni Ocse, anche se la strada è ancora lunga. La responsabile del Tesoro, Janet Yellen, ha comunicato in una lettera al G20 che gli Stati Uniti abbandoneranno la richiesta di prevedere un “safe harbor”, cioè la possibilità per le Big Tech di sottrarsi agli eventuali accordi internazionali, scegliendo pertanto il regime fiscale più conveniente. L’Unione europea ha accolto con entusiasmo la correzione di rotta, ma è presto per esultare, anche perché l’apertura di Washington mette in mora in modo ancora più evidente le fughe in avanti di Bruxelles e di alcuni Stati membri, quali la Francia e l’Italia.

La trattativa in questo momento si svolge in parallelo su due binari: la determinazione delle basi imponibili nell’economia digitale e l’introduzione di una “global minimum tax”, cioè una aliquota minima per l’imposta sul reddito d’impresa. Il primo pilastro riguarda, dunque, le architetture societarie delle imprese; il secondo le politiche degli Stati, specialmente quelli (come l’Irlanda) che hanno fatto della bassa imposizione corporate una leva per l’attrazione degli investimenti esteri. Il problema esiste ma talune delle terapie proposte sono ben peggiori del male.

La questione, in verità, riguarda tutte le società multinazionali, sebbene nel caso dell’online sia particolarmente evidente. Uno dei principi fondanti dei sistemi tributari moderni sta nel fatto che gli utili vanno tassati nel luogo della produzione. Così, una fabbrica italiana di rubinetti che esporta i suoi prodotti in Germania pagherà le tasse nel nostro paese, perché è qui che essi vedono la luce. Ma quando la produzione riguarda asset immateriali (per esempio, lo sviluppo di linee di codice o la proprietà intellettuale) localizzarne l’origine può diventare complesso.

Se passasse questa linea, gli europei potrebbero trovare un’amara sorpresa: poiché la maggior parte delle Big Tech sono imprese americane, è possibile che le nuove regole – che comunque sono ancora tutte da scrivere – facciano sì emergere nuove basi imponibili, ma che ciò accada davanti agli occhi dell’Irs (l’equivalente a stelle e strisce della nostra agenzia delle entrate), non nel Vecchio continente. Inoltre, proprio l’avvicinarsi dell’accordo rende ancora più indifendibili le webtax italiana e francese (e la corrispondente proposta a livello Ue), che colpiscono i ricavi europei delle imprese online.

Le contestazioni sollevate dall’amministrazione Trump davanti all’Organizzazione mondiale del commercio restano valide: Biden potrebbe farle cadere per ragioni politiche, ma difficilmente potrebbe accettare quella che diventerebbe ancora più platealmente una sottrazione di gettito da parte degli europei ai danni degli Usa. Il rischio, paradossalmente, è che aumenti l’imposizione fiscale sui servizi digitali, e che ciò ne faccia crescere i prezzi: senza, tuttavia, che gli Stati europei riescano a intercettare questo gettito addizionale se non in minima parte.

Insomma: Yellen ha certamente fatto un passo verso le richieste dell’Ue, ma il percorso per arrivare a un compromesso è ancora in salita. In ogni caso, la vittoria europea potrebbe rivelarsi effimera. Per i consumatori europei sarebbe una beffa, per gli Stati un buco nell’acqua.

Web tax, gli europei rischiano una brutta sorpresa

L’apertura di Janet Yellen a una riforma fiscale che aumenti la pressione sulle grandi aziende tecnologiche potrebbe aumentare la base imponibile, ma negli Stati Uniti. Carlo Stagnaro, direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni, avverte chi in Europa sta festeggiando troppo presto per il cambio di rotta americano

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