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Fare presto. E bene. Tra poco più di quaranta giorni il Recovery Plan italiano dovrà essere sulla scrivania di Ursula von der Leyen. E su quel piano ci sarà la firma di Mario Draghi. Non sarà facile scrivere un piano da 209 miliardi e passa (c’è l’effetto moltiplicatore), denso di riforme attese da mercati e cittadini, mentre sul Paese aleggia lo spettro di nuove restrizioni, nuove zone rosse. In una parola, nuove mazzate sull’economia. Una ragione in più per non fallire il colpo, dice a Formiche.net Marco Fortis, economista e vicepresidente della Fondazione Edison.

Fortis, mentre il Paese combatte la sua battaglia contro la pandemia, il governo lavora tra le altre cose, al Recovery Plan. Che cosa non deve mancare dal piano italiano?

Tanto per cominciare ci deve essere una coerenza di fondo e intrinseca con i due principali obiettivi del Recovery Fund, ovvero la digitalizzazione e la transizione ecologica. Quello che mancava nella prima versione era un vero cronoprogramma degli investimenti e della spesa, che indicasse come da qui al 2026 come e dove spendere i soldi. In più nella prima versione mancava una chiara distinzione tra sussidi e prestiti. Quello che non potrà mancare è dunque l’indicazione chiara su cosa verrà speso, dove e quando, da qui al 2026, con annesse simulazioni di impatto sul Pil. Però mi aspetto anche altre cose.

Per esempio?

Tutta una serie di voci secondarie, che però vanno chiarite. Parlo della formazione, dell’impatto delle riforme strutturali, della Pubblica amministrazione. E poi le indicazioni sui tempi per gli investimenti e lo snellimento della burocrazia, quest’ultimo un elemento essenziale per la riuscita degli investimenti.

Draghi ha chiarito due punti: governance del Recovery interna al Mef e una riforma che accompagni ogni investimento. Condivide?

Mi pare un approccio molto pragmatico. Il fatto di aver messo un uomo di fiducia del premier al Mef (il ministro Daniele Franco, ndr) vuol dire che ci sarà un canale di comunicazione continua tra Palazzo Chigi e il Tesoro. E anche questo mi pare molto pragmatico. C’è poi un altro tema, quello degli investimenti bloccati. Quest’anno potremmo avere un rimbalzo del Pil tra il 3 e il 3,5%, ma è un rimbalzo fiacco, da fine anni ’90. Ecco dunque che emerge l’incapacità del Paese di spendere i soldi che ha, e non parlo del Recovery Plan ma dei fondi precedenti. Non è un buon preludio.

Fortis, siamo al quinto decreto ristori, peraltro ancora una volta a deficit. Di soldi per ristorare chi deve chiudere l’attività non ce ne sono molti ancora. Forse è tempo di uscire dalla logica delle restrizioni?

Rispetto alla prima ondata, oggi la manifattura è aperta e questo fa la differenza in termini di Pil. Le fabbriche oggi sono aperte, durante il primo lockdown non lo erano, dimostrando di essere luoghi assolutamente sicuri. C’è una bella differenza. E comunque non credo che ci sarà un lockdown della manifattura, perché la medesima ha dimostrato di essere sicura. Per quanto riguarda i ristori, essendo poche le risorse, è evidente che questi soldi vadano dati alle aziende che soffrono maggiormente.

Per esempio?

Penso al turismo. Se guardiamo ai pernottamenti negli alberghi, l’Italia nel G20 è seconda solo agli Stati Uniti, con 141 milioni di notti. Chiaro che siamo una potenza turistica ed è altrettanto chiaro che il turismo è la nostra Silicon Valley e deve essere salvato, è il nostro motore.

Torniamo alle fabbriche. Confindustria ha proposto al governo di vaccinare tutti i dipendenti delle aziende associate, dentro gli stabilimenti. Che ne pensa?

Una proposta molto interessante, perché le fabbriche sono attrezzate. Per fare le vaccinazioni serve per esempio un defibrillatore e le fabbriche lo hanno. Dunque mi sembra una buona idea per accelerare le vaccinazioni, vista e considerata anche la mole di persone di cui parliamo, intendendo i dipendenti delle aziende associate. Bisogna fare di tutto per uscire dal tunnel, il Recovery Fund rappresenta un’occasione storica, ma senza riforme servirà a poco. Ecco perché bisogna, nel mentre, accelerare la vaccinazione.

Eccoci all’altro punto, in realtà legato a doppio filo all’economia: i vaccini. Si parla con insistenza della possibilità di condividere i brevetti delle aziende che producono il vaccino, affinché tutti gli Stati colpiti dalla pandemia possano a loro volta produrlo. 

Mi pare un po’ una forzatura, lo trovo sbagliato. Voglio dire, una cosa è che per conto terzi produciamo delle cose per chi ha la proprietà, ovvero le Big Pharma titolari del vaccino. Ma intervenire sulla proprietà intellettuale non esiste, nemmeno dinnanzi a una pandemia. Come lo spighiamo a un’azienda che ha investito miliardi in ricerca che gli portiamo via il brevetto? Assurdo.

Non c’è un’alternativa?

In realtà sì, anche se Farmindustria è molto prudente perché parliamo di un processo lungo. E cioè individuare chi può vendere il vaccino per conto terzi. Ma parliamo di milioni di dosi, non si può fare in pochi secondi, serve un progetto. Allora in quel caso si va dall’AstraZeneca o dalla Pfizer e gli si propone di produrre il loro vaccino nelle nostre aziende, nei nostri siti. In questo modo si può aumentare la produzione dei vaccini e allora può funzionare, ma certamente non si può pensare di fare l’esproprio proletario dei brevetti, quello che è un discorso che va bene per un bar.

 

 

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