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A dieci anni dall’avvio delle rivolte che portarono alla fine dell’era Gheddafi, oggi la Libia appare una realtà frantumata, caratterizzata da rapporti di collaborazione e competizione spesso incompatibili tra loro, dove attori esterni giocano partite diverse contrapponendo le poche e disorganizzate forze locali.

Guardando alla situazione complessiva, l’instabilità libica si impone quale principale ostacolo alla sicurezza dell’intero Mediterraneo. Se da un lato gli attori regionali e internazionali si contendono l’influenza nell’area, dall’altro, gli Stati europei sembrano incapaci di agire attraverso una visione politica unitaria per garantire la sicurezza del confine meridionale dell’Unione europea: l’instabilità in Libia potrebbe così influire su quella del nord Africa e del sud Europa, inteso anche come fianco sud della Nato. Più recentemente, la competizione tra gli attori protagonisti del conflitto libico ha avviato una nuova fase militare e politica. Il Governo di accordo nazionale (GNA) di Tripoli è riuscito a rompere un assedio durato 14 mesi da parte dell’Esercito nazionale libico (LNA) di Tobruk guidato dal generale Khalifa Haftar, e a invertire gli equilibri del conflitto lanciando una controffensiva.

Il sostegno della Turchia si è rivelato essenziale per la Tripolitania, tanto da garantire ad Ankara la fornitura dell’assistenza dell’esercito turco nella fase di transizione prevista dagli accordi tra le parti che dovrebbe portare all’integrazione delle milizie irregolari in un esercito regolare. Il ruolo giocato dalla Turchia segue il copione già utilizzato nell’addestramento dell’esercito dell’Azerbaijan, dove le forze turche hanno fornito supporto, formazione ed equipaggiamenti alle loro controparti azere. Inoltre, a fronte del pericolo rappresentato dai mercenari jihadisti inviati dalla Turchia in Libia, è in parte avvenuto il trasferimento di questi combattenti in Azerbaijan.

La Turchia ha così assunto un ruolo cruciale, sia per quanto riguarda i giochi politici, intesi come rapporti di collaborazione con i gruppi di potere e i gruppi politici dell’area mediterranea di orientamento islamista legato alla Fratellanza musulmana, sia dal punto di vista della presenza fisica perché il ruolo che lo strumento militare turco sta giocando, e giocherà ancora di più, sarà determinante per ridefinire la Libia che sarà. In tale quadro, la competizione tra Italia e Turchia in Libia potrebbe finire come per la Russia e l’Iran in Siria dove, pur sostenendo la stessa fazione, i due attori cercano di escludersi a vicenda. Tutti questi elementi aprono alla possibilità di uno scenario di rivalità aperta, pur non escludendo una possibile cooperazione basata sul comune interesse.

Il processo elettorale del 2021, frutto del dialogo negoziale tra le parti che si è svolto a Ginevra attraverso la mediazione delle Nazioni Unite, lascia presagire uno scenario nel breve periodo tutt’altro che stabile. L’esito del voto del 5 febbraio ha visto imporsi la lista con Mohammad Younes Menfi come candidato alla presidenza del Consiglio presidenziale e come premier Abdul Hamid Mohammed Dbeibah. Il processo, coordinato da Stephanie Williams, non è andato a buon fine: la ricerca di posizioni che potessero accontentare tutti ha finito per indebolire la scelta finale. I veti incrociati hanno avuto la meglio sui due uomini forti, Aguila Saleh per l’est, e Fathi Basghaha (che ha buone relazioni con l’Italia) per l’ovest, su cui la comunità internazionale aveva chiaramente puntato. I candidati eletti non sono particolarmente conosciuti né forti, e non hanno alcun interesse comune che non sia il potere: le nuove autorità troveranno molto difficile esercitare qualsiasi influenza nell’rst e incontreranno opposizione anche a ovest. E questo suggerisce una probabile incapacità di resistere alle pressioni esterne e interne, con tentativi di destabilizzazione violenta da parte degli esclusi.

L’unica potenza straniera che si trova in posizione di vantaggio è ancora una volta la Turchia, cui sarebbe legato il premier eletto Dbeibah, oggi ricco uomo d’affari di Misurata che in passato aveva guidato la Libyan Investment and Development Company, il fondo sovrano avviato da Gheddafi nel 2007.

Al contrario, l’Italia, debole e meno attiva, vede sempre più erosi i propri ruolo e influenza. I pochi punti di forza dell’Italia vengono confermati dall’attivismo dall’Eni, che cerca di tutelare, attraverso la garanzia dei propri interessi, gli interessi nazionali. Nel ruolo che Ankara sta giocando e giocherà sarà sempre più determinante lo strumento militare, sebbene la Turchia abbia uno svantaggio fisiologico dovuto a una condizione economicamente debole: per muovere e mantenere le truppe all’estero sul medio-lungo occorrono risorse finanziarie che Ankara non ha. Questo potrebbe essere un limite alle sue ambizioni.

Chi comanda in Libia? L'analisi di Bertolotti

Frantumata, fragile e con interessi esterni che si sovrappongono a esplosive dinamiche interne. È la Libia vent’anni dopo le rivolte di Gheddafi, con la Turchia in posizione di vantaggio e l’Italia che vede erosa la propria influenza. L’analisi di Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight, autore della nuova pubblicazione “Libia in transizione. Guerra per procura, interessi divergenti, traffici illegali”

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