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Pessima settimana per i rapporti tra Cina e Unione europea. E non soltanto alla luce della sfida a colpi di sanzioni e controsanzioni sulla repressione uigura nello Xinjiang e delle successive convocazioni di diversi ambasciatori di Pechino presso i ministeri degli Esteri dei Paesi ospitanti.

A infliggere l’ultimo colpo alla Cina è la Lituania, ex Stato del blocco sovietico oggi membro dell’Unione europea e della Nato oltre che tra i Paesi europei che hanno firmato il memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Il ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis ha dichiarato che la piattaforma 17+1 di cooperazione economica tra la Cina e i Paesi dell’Europa centro-orientale messa in piedi da Pechino nel 2012 ha portato alla Lituania “quasi nessun vantaggio” ma soltanto divisione. Il tutto a seguito di un voto in Parlamento a febbraio nella stessa direzione. Dunque, addio 17+1. Il dialogo con la Cina, ha spiegato il ministro, adesso passerà dall’Unione europea.

La situazione appare già calda? Sì. Epperò non è tutto. Perché la stessa Lituania sta pensando di aprire un ufficio commerciale a Taiwan, isola di cui il governo cinese non riconosce l’autonomia. Aušrinė Armonaitė, ministra dell’Economia e dell’innovazione, ha fatto esplicito riferimento a Taiwan come una delle “regioni” in cui il Paese vuole aprire una sede di rappresentanza commerciale dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal governo al Parlamento. A tal proposito il ministro degli Esteri Landsbergis aveva puntato il dito contro il governo cinese accusandolo di aver tentato di dissuadere l’esecutivo di Vilnius dall’aprire un ufficio commerciale a Taipei facendo pressioni sulle aziende lituane.

Ci sono due elementi che meritano di essere portati in evidenza nelle recenti tensioni tra Pechino e Vilnius (la cui intelligence da diversi anni ormai cataloga la Cina come “rischio per la sicurezza nazionale”).

Il primo: il formato 17+1, di cui spesso la Cina ha approfittato per dividere l’Unione europea a colpi di accordi bilaterali, sta scricchiolando. Basti pensare che tra i 39 Paesi che a inizio ottobre denunciarono alle Nazioni Unite, per bocca dell’ambasciatore tedesco Christoph Heusgen la repressione cinese su Hong Kong c’era anche la Lituania e altri dieci Paesi dell’Europa centro-orientale.

Il secondo elemento è ben riassunto in un tweet di Robert Ward, direttore del programma Geoeconomia e strategia del centro studi britannico International Institute for Strategic Studies, che si dice nient’affatto stupito della scelta lituana. E aggiunge: il caso è “emblematico del fallimento della più ampia strategia cinese di generare dipendenza nelle aree del mondo in cui ha interessi. La lista è lunga: pensate anche a Regno Unito, India, eccetera”.

È la conferma che “i Paesi dell’Europa centro-orientale avrebbero dovuto essere la porta della Cina per l’Europa; invece sono diventati il suo più grande grattacapo”, come ha scritto qualche settimana fa Andreea Brînză, vicepresidente del Romanian Institute for the Study of the Asia-Pacific, sul Diplomat.

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