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“Abbiamo appreso più dalla sua testimonianza nella quotidianità che dalle inutili disquisizioni: Franco non faceva prediche, ma pratiche”.

Ha perso un amico l’ex ministro dell’Istruzione e storico esponente della Margherita, Giuseppe Fioroni. Franco Marini non è stato solo un punto di riferimento politico, sostenitore di un Pd plurale e popolare, ma un esempio di vita per sobrietà, pacatezza e fermezza. Quella volta che rischiò di andare al Colle e le sue molte vite nel sindacato e nella politica pre e post dem, condensate in questa conversazione con l’esponente cattolico.

Cosa ha rappresentato per quel nucleo di cattolici democratici in cui lei è cresciuto?

Parlo di Franco Marini come si fa di un amico. Avevamo un rapporto che in un secondo momento è stato anche politico. Un legame profondo, franco, solido e leale: con lui non servivano infingimenti o ipocrisie ma preferiva andare dritto al punto. Per me un grande punto di riferimento: ha incarnato quello che rappresenta il popolarismo in Italia. Fedele ai valori, ci ha trasmesso un insegnamento fondamentale: che nella vita le battaglie che meritano di essere combattute sono quelle che mettono in discussione i valori profondi in cui crediamo. E Franco l’ha testimoniato non solo nel suo impegno politico, ma anche sindacale, non avendo mai paura di essere minoranza, convinto che la forza delle idee avrebbe prevalso.

Cosa le ha trasmesso?

Valori, testimoniandoli con la vita. Uso il noi perché mi riferisco a una intera generazione di uomini politici popolari italiani. Abbiamo appreso più dalla sua testimonianza nella quotidianità che dalle inutili disquisizioni: Franco non faceva prediche, ma pratiche. Un grande maestro che inseguiva ciò in cui credeva, mettendoci la faccia in prima persona. Un uomo di grande ascolto: per Franco esistevano gli avversari ma non i nemici. Amava parlare e dialogare con tutti, perché alla fine dei confronti si usciva arricchiti. Non è stato mai l’uomo del compromesso al ribasso o che cercava le sintesi facili: preferiva quelle più alte per governare un processo di rinnovamento dell’Italia.

Come la scelta di fondare il Partito Popolare?

Sì. E anche come quella del primo governo Prodi, tenendo in piedi un’alleanza incredibile. Abbiamo girato l’Italia in lungo e in largo. Ricordo che quando diventai responsabile enti locali del Ppi e poi del Pd, mi disse di non illudermi che un partito si costruisse con le telefonate. Serve andare di persona. Non c’è una parte del territorio italiano che Franco non abbia visitato o conosciuto: amava ripeterci che le persone vanno guardate negli occhi, fossero anche solo pochi militanti nell’ultimo borgo fuori mano. Eravamo negli anni immediatamente prima dei social. Ci ha trasmesso la necessità che la politica è incontro di persone, speranze, sentimenti.

Che cosa non ha mai fatto nella sua esperienza politica?

Non ha mai guardato l’aspetto del tornaconto, ma ha sempre curato prevalentemente l’interesse generale anche quando si scalpitava o si diceva che la nostra parte poteva essere più rappresentata. Non contano le quantità, ripeteva, ma la qualità mescolata alla capacità di indirizzo, tramite le nostre idee. Ricordo il suo determinante contributo nel tenere assieme la coalizione dell’Ulivo. La sua capacità di conoscere i territori lo rendeva insostituibile alle nottate trascorse ai tavoli dei collegi, dove metteva sempre l’uomo giusto al posto giusto. Gli veniva riconosciuta da tutti una lealtà oggettiva. Certamente uomo del dialogo, ma anche uomo della fermezza sui valori. Rifuggiva le prediche inutili, ma da buon maestro testimoniava coi fatti ciò in cui credeva.

Quale il suo ruolo nel destino dei democratici?

Quando demmo vita al Pd, con le mille titubanze date da una fusione in corsa, ricordo la sua spinta per assicurare al partito una spiccata pluralità, per far sì che non fosse un partito da “sotto il vestito nulla”. Era convinto che al Paese servisse un nuovo grande partito di centrosinistra, con l’idea di un Pd capace di fare sintesi tra le culture politiche fondamentali e che, senza i popolari, non sarebbe stato più l’elemento di novità.

Ricorda in particolare un aneddoto?

Un uomo che c’era sempre e non solo per le cose della politica. È stato vicino in tutti i momenti difficili che la nostra comunità ha avuto. L’ho visto seguire casi singoli con un tratto di umanità fondamentale nei rapporti con gli ultimi e con chi non aveva voce.

Marini ha avuto un ruolo primario nel sindacato, ieri incubatore di idee e scuola di formazione. E oggi?

Credo che il sindacato debba trovare in Franco Marini, oggi più che mai, un punto di riferimento per battaglie, valori da difendere e per quella capacità di essere al servizio, a maggior ragione in un momento di rigenerazione come questo, di politica e corpi intermedi. Ho visto poche persone essere a un centimetro all’elezione al Colle e restare tranquilli, senza la foga di ricercare i colpevoli per il mancato voto.

Si parla molto in questi giorni della possibile maturazione di Salvini, ma anche dei voti da dare alla strategia fin qui del Pd. La linea Zingaretti-Bettini piatta su Conte è uscita indebolita? Quanto sarebbe servito l’apporto popolare di Marini a questo centrosinistra?

Se c’era una caratteristica a cui i popolari di ieri facevano grande attenzione era quella di saper cogliere i segni dei tempi, senza farsi trascinare dai cambiamenti, ma anticipandoli. Franco pensava che la valenza popolare all’interno del Pd non fosse data dal numero di poltrone occupate, ma dalla qualità della proposta e dalla sua capacità di incidere nella programmazione complessiva. Per semplificare, non è con due ministri in più che si testimonia una presenza.

Vede quella densità di valori e visione nella scelta del Pd, anche se non immediata, di appoggiare Draghi?

Adesso è necessario partire: a Draghi è affidata una mission complicata, salvare l’Italia sul versante della pandemia e del rinnovamento economico. Fatto questo potremo ritornare a parlare, con più serenità, di politica e di Pd. Oggi affrontiamo questa vicenda come l’avrebbe affrontata lui: ascoltando con caparbia determinazione gli interessi del paese. E solo dopo quelli di parte.

twitter@FDepalo

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