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Il primo a scriverne è stato il Financial Times il 9 aprile: Arabia Saudita e Iran si parlano. Delegazioni delle rispettive intelligence si sono incontrate a Baghdad: un faccia a faccia (non così inusuale, sebbene la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche risalga al 2016) con uno scenario ibrido.

Da un lato l’Iraq è uno dei centri di diffusione delle dinamiche regionali che i Pasdaran muovono attraverso le milizie sciite come operazioni di influenza e politica estera aggressiva; dall’altro c’è un primo ministro pragmatico che intende sganciarsi dal peso che le milizie rappresentano, dall’influenza dell’Iran, e intende dialogare con tutti.

Mustafa al-Kadhimi sa perfettamente che Riad è un ottimo partner (economico e politico), ha un buon rapporto col factotum de regno, Mohamed bin Salman, e valuta lo scenario pensandolo in vista delle elezioni di ottobre. Il premier iracheno non può perdere nemmeno un centimetro nelle relazioni internazionali (e ancora prima regionali) perché il Paese che governa ha bisogno di molta assistenza.

Riad ha sentito la necessità di riavviare un qualche genere di contatto con Teheran perché si sente isolato. Alla Casa Bianca s’è rotto l’incantesimo trumpiano, quello in cui i sauditi erano stati i primi alleati a essere onorati della visita del presidente americano, che aveva costruito con loro un rapporto ancora più stretto del normale, passando sopra a diverse faccende.

Ora con Joe Biden qualcosa è cambiato. Quelle faccende (il caso Khashoggi, le violazioni dei diritti, la guerra in Yemen) sono diventate fattori che influenza la politica estera americana e che Washington fa pesare a Riad. In una regione che adesso cerca il dialogo come forma tattica per non scontentare il gigante americano – che vede sempre più il Medio Oriente come teatro da cui disimpegnarsi – i sauditi non potevano non cercare gli iraniani.

Secondo Cinzia Bianco, esperta di Golfo e Medio Oriente dell’Ecfr, il dialogo non può tuttavia considerarsi costruttivo o fare da framework preliminare per una nuova architettura di sicurezza regionale. E questo perché “una delle due parti (ossia l’Arabia Saudita) è chiaramente sotto scacco”.

Bianco si riferisce alla crisi militare in Yemen, conflitto che dura da sei anni (e non pare trovare pace), in cui Riad è parte in causa avendo spostato le proprie forze armate per proteggere Sanaa dall’assalto dei ribelli Houthi – un movimento separatista sciita zaydita che dal Nord dello Yemen ha lanciato nel 2015 un attacco contro il governo regolare.

Gli Houthi sono aiutati militarmente dall’Iran. Attualmente la loro principale capacità militare risiede nei droni (progetti che derivano da modelli iraniani che i Pasdaran forniscono agli yemeniti), che spesso vengono usati per colpire il territorio saudita. Gli attacchi Houthi sono diventati via via più importanti (da poco è stato bloccato il traffico aereo su Jeddah, per precauzione).

Recentemente il capo del CentCom ha parlato molto a lungo della minaccia prodotta dai droni (e dai missili) iraniani, mentre nel settembre 2019 un attacco dallo Yemen (probabilmente con la partecipazione dei Pasdaran) ha causato enormi danni alle strutture della compagnia energetica saudita Aramco ad Abqaiq e Khurais.

In quell’occasione, Riad e Teheran iniziarono ad aprire contatti di intelligence. L’Arabia Saudita aveva scelto di riavviare in parte i contatti perché aveva valutato davanti a sé la dimensione della minaccia. Anche adesso, “ci troviamo davanti a una vittoria tattica dell’Iran, che sfrutta la propria proiezione geopolitica regionale per crearsi vantaggio sul rivale”, spiega Bianco.

Riad valuta come inevitabile la ricomposizione del Jcpoa, con il ritorno degli Stati Uniti nel quadro dell’accordo sul nucleare con l’Iran; sente la pressione filo-iraniana dallo Yemen (a questo si lega per esempio l’accordo sui Patriot greci che saranno schierati in territorio saudita); è inserito in un quadro che cerca il contatto piuttosto che lo scontro.

Due giorni fa un media londinese che il regime iraniano considera collegato all’Arabia Saudita, Iran International, ha diffuso un audio rubato di un conversazione tra il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, e l’economista Saeed Leylaz. Si sente il ministro – frustrato rappresentante del pragmatismo riformista dialogante di Teheran  dire che la politica estera della Repubblica islamica è guidata dai Pasdaran. È ciò che pensano (e temono) anche a Riad.

Riad e Teheran si parlano. È (im)possibile un accordo?

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