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I recenti provvedimenti di oscuramento degli account dell’ex presidente americano Donald Trump, adottati da alcuni dei maggiori social network, hanno avvicinato il grande pubblico ad un dibattito che, da tempo, occupa i giuristi su entrambe le sponde dell’Atlantico: è legittimo corresponsabilizzare, attraverso norme di legge, i fornitori di servizi digitali per i fatti illeciti commessi dagli utenti attraverso le loro piattaforme? Nello specifico: la protezione di dritti fondamentali deve essere garantita tramite una selezione dei contenuti affidata agli online intermediary services?

Escludendo che decisioni di simile impatto si debbano ad antipatie politiche, è lo spettro di una diretta chiamata in responsabilità a orientare il comportamento di questi importanti corporate citizens. L’oscuramento di Trump su Twitter, per esempio, ha seguito una tipica traiettoria giuridica: alla violazione di una norma di marca privatistica, rappresentata dalla policy aziendale contro la glorification of violence, è conseguita -da parte dello stesso soggetto privato- l’adozione di un provvedimento autoritativo inibitorio teso, in ultima analisi, a schermare la piattaforma dall’attribuzione di responsabilità accessoria ed aggiuntiva per i contenuti illeciti diffusi da un suo utente.

Dal punto di vista giuridico, il problema matura nella tensione tra delicati interessi contrapposti. La diffusione universale di Internet reca vantaggi indiscutibili: sviluppo macroeconomico (basti pensare all’elefantiaco rilievo dell’e-commerce), promozione e facilitazione delle relazioni interpersonali, inedite chances di accesso e condivisione di informazioni, tanto di natura socio-culturale che politico-informativa. D’altro canto, la rete modella fenomeni criminali nuovi e amplifica a dismisura la capacità offensiva di illeciti tradizionali. La condivisione di materiali pedo-pornografici prospera sul web, le chiamate alle armi del terrorismo fondamentalista raggiungono ogni angolo del globo, le reputazioni vengono annichilite dalla pubblicazione di notizie infamanti, il diritto di autore è raso al suolo dalla condivisione libera di opere dell’ingegno, gli hacker paralizzano in un istante i sistemi informatici di istituzioni straniere.

Il lavoro, cui il diritto è chiamato, di sintesi tra l’esigenza di assicurare alla rete uno sviluppo democratico, scevro da interferenze esterne, e di garantire la migliore tutela di delicatissimi interessi, è dominato da un dato tecnico: sul web, pubblicazione e accesso ad ogni contenuto si debbono all’imprescindibile opera degli internet providers, i quali, a seconda dei casi, forniscono le infrastrutture su cui viaggiano o vengono immagazzinati i dati prodotti dagli utenti, approntano i software di selezione ed indicizzazione degli stessi, li mantengono disponibili o li diffondono ulteriormente.

Ciò vale anche per i contenuti illeciti, alla cui fruizione i provider apportano (dal punto di vista oggettivo) un contributo determinante che ne imporrebbe la corresponsabilizzazione, accessoria a quella dell’autore principale dell’illecito, per omesso impedimento del fatto. Il teorema è che il dominio tecnico sull’informazione (e quindi la capacità di filtrarla) deve essere esercitato in modo tale da garantire l’intangibilità di diritti primari del singolo e della comunità.

Gli intermediari dispongono delle risorse organizzative e tecniche (algoritmi) per rimuovere i contenuti illeciti, così come per garantire la sottoposizione alla giustizia di chi usa il web per fini illeciti; inoltre, traendo enormi profitti dall’esercizio dell’impresa, essi ben possono (eticamente ed economicamente) sopportare i costi di ogni lesione ai diritti altrui che si verifichi anche grazie al loro operato.

All’opposto, le tesi a favore dell’irresponsabilità degli operatori rilevano la inesigibilità di un filtraggio della mostruosa mole di dati caricati sulle piattaforme, operazione il cui proibitivo costo verrebbe ribaltato sugli utenti. Ma soprattutto, segnalano il pericolo di indurre soggetti privati, assoggettati a logiche imprenditoriali di libero mercato, ad incidere su diritti fondamentali degli utenti, quali la libertà di espressione del pensiero e di iniziativa economica, attraverso norme non modellate nelle sedi democratiche né assistite da apparati di censura governati dalle competenti autorità con le garanzie di legge. Il criterio dei profitti, infine, altro non sarebbe che un surrettizio (e meta-giuridico) obbligo di perequazione della ricchezza.

A livello di diritto vigente, la tesi a favore della responsabilità è recessiva. Numerosi testi normativi la respingono, introducendo al contrario disposizioni che escludono un concorso degli operatori digitali negli illeciti dei loro utenti, onerandoli, al più, di obblighi di collaborazione successiva con le autorità.

Tra le principali, il § 230 del Communications Decency Act americano del 1996, il § 202 dell’Online Copyright Infringement Liability Limitation Act del 1998, il tedesco IuKDG del 1997, la Direttiva sul commercio elettronico (2001/31/Ce, recepita in Italia con il D.lgs. 70/03) del 2001. Tutti testi che, con una varietà di soluzioni, prevedono un meccanismo di esclusione di responsabilità (safe harbor) per gli intermediari digitali rispetto agli illeciti verificatisi attraverso i loro sistemi, alla condizione fondamentale che non abbiano avuto alcun ruolo nella produzione del contenuto incriminato, né nella autarchica selezione dei destinatari dello stesso.

Numerose pronunce giurisdizionali in diversi Paesi del mondo hanno confermato l’ampia immunità di cui godono, alle condizioni di legge, i providers. In Italia, addirittura in sede penale, allorché i vertici di Google vennero chiamati a rispondere, in concorso, dei reati commessi da alcuni utenti attraverso la pubblicazione di un videoclip. La Corte di Cassazione, con una sentenza del 2013, escluse la responsabilità proprio sulla base delle disposizioni e dei principi generali che garantiscono ampia libertà ai providers.

Tuttavia, i trend più recenti vanno verso la progressiva erosione dello spazio di salvaguardia degli intermediari. Sono state introdotte normative (come la legge americana ‘FOSTA del 2018 sullo sfruttamento sessuale online) che limitano l’immunità alla responsabilità civile, o che la escludono per determinati illeciti. E si diffondono interpretazioni giurisprudenziali rigorose sull’inadempimento agli obblighi di cooperazione successiva. I fatti di Capitol Hill hanno mostrato a tutto il mondo l’effetto moltiplicatore dei social network sull’ordine pubblico e, di converso, la capacità dei giganti del web di intervenire rapidamente alla radice del problema.

Al di là di ogni considerazione sull’opportunità politica di affidare a soggetti privati poteri pervasivi su diritti primari degli utenti, appare chiaro che, dal punto di vista giuridico, quella della (cor)responsabilità è la strada da seguire per ottenere l’ingaggio degli intermediari nella moderazione dei contenuti. Non per nulla, negli Stati Uniti post-trumpiani continuano a discutersi disegni di legge per limitare, o abrogare del tutto, la § 230, e nell’Unione Europea vanno avanti i lavori per l’adozione dei Digital Services/Markets Acts, che, per la prima volta, si propongono di regolare organicamente la materia su tutto il continente.

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