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I dubbi tedeschi sulla tenuta dell’Italia, benché espressi con riserbo, quasi sottovoce, alimenteranno le inevitabili polemiche. Di nuovo l’invadenza. Ancora una “perfida” nazione che viola i sacri confini, per fortuna non geografici, del Paese. Il sovranismo nostrano troverà nuovi motivi per rincarare la dose contro l’egemonismo dei Paesi d’Oltralpe. E Alberto Bagnai, il responsabile economico della Lega, al suono dell’inno di Mameli, ci spiegherà, ancora una volta, come sia facile e opportuno sbarazzarsi di quest’Europa, che osa interferire sulle vicende interne dei suoi sudditi. Altro che alleati.

Copione già visto tante volte. Che nella sua ripetitività rischia di risultare stucchevole. Non esiste un’Italexit, per il semplice fatto che l’Italia non è il Regno Unito. A differenza di quest’ultimo non ha più una sua moneta, ma l’euro. Non ha la City con la sua proiezione internazionale. Non ha quel rapporto preferenziale con gli Stati Uniti che ha consentito a Boris Johnson di passare, in modo quasi istantaneo, da Donald Trump a Joe Biden. Di tutto ciò è bene farsene una ragione e discutere mantenendo saldamente i piedi per terra.

Tutto ciò comporta forse la rinuncia a difendere i propri interessi nazionali? Chi sostiene questa tesi, ha talmente interiorizzato un rapporto di subalternità da non distinguere più l’Impeto propagandistico dalla realtà effettiva. Forse i francesi o i tedeschi, solo per citare un caso, non difendono i loro interessi? Lo fanno ovviamente in un perimetro segnato dal confronto permanente con le rappresentanze degli altri Paesi. Per cui, alla fine, il risultato di compromesso premia di volta in volta gli uni o gli altri. Con il maggior vantaggio di chi ha saputo meglio difendere la propria posizione.

È questo il caso dell’Italia? Purtroppo il Paese è rimasto prigioniero del suo passato. Da un lato il cosmopolitismo di una sinistra abituata ad anteporre gli interessi degli altri ai propri. Si pensi al travagliato rapporto con l’Urss. Dall’altro i riverberi di un antico nazionalismo, destinato, alla fine a sconfinare un imperialismo, un po’ cialtronesco. Inevitabili le conseguenze: l’acquisizione acritica di tutto ciò che proviene da Bruxelles contro il rifiuto pregiudiziale di ogni suo possibile input. Estremi che si sono incontrati nel rifiuto di una cultura critica: capace di misurarsi con le tesi altrui, alla ricerca di quei compromessi che fanno vivere nei fatti la difesa degli interessi nazionali al di là di ogni foga retorica.

Vi sono le condizioni minime per farlo? Solo se si conosce la complessità della legislazione europea per interferire. Ma basta vedere la lontananza da questo perimetro delle strutture burocratiche ministeriali per capire la profondità del gap che isola, più che dividere, l’Italia dal resto dei suoi partner. E, allora, piuttosto che discutere, trattare, confrontarsi, meglio accettare supinamente o sparare sul pianista. Tanto più che, per comportarsi diversamente, bisognerebbe avere un’idea forte del proprio Paese e del proprio destino. Quando in Italia, almeno negli ultimi anni, si è principalmente teorizzata la decrescita felice o il peloso assistenzialismo.

Quelle due opposte visioni hanno portato all’esaltazione del Fiscal compact o alla sua condanna. Mario Monti da un lato, Matteo Salvini e Giorgia Meloni dall’altro. Ma il volto vero dell’Europa non è solo quello dell’austerity, alimentata dalle paure ataviche dei tedeschi. C’è una corrente di pensiero, rimasta purtroppo minoritaria, che invece parte dagli squilibri macroeconomici dei singoli Paesi per indicare una diversa prospettiva. Con al centro i temi dello sviluppo, grazie ai quali risolvere ogni altro problema. Compreso quello del debito. L’ultimo editoriale di Francesco Giavazzi sul Corriere della sera. Questa linea non ha avuto la stessa dignità politica, perché nessuno ha avuto il coraggio di spingerla, contrastando l’egemonia tedesca. Troppi gli interessi contrapposti di quel Paese. Ma la colpa è di Berlino, che si è difesa, o di Roma, che non si è nemmeno accorta di quel che gira intorno ai suoi sette colli?

Questa diversa impostazione ha determinato tra le due capitali una lontananza difficile da superare. Parlano entrambe due lingue diverse, che rendono difficile, se non impossibile un punto di contatto. E allora gli stereotipi prendono il sopravvento. Con i socialdemocratici, come Alex Scaefer, che, nella corrispondenza sulla Repubblica di Tonia Mastrobuoni, difende Nicola Zingaretti, contro Matteo Renzi. E il cristianodemocratico Marian Wendt che invoca la rinnovata presenza di Silvio Berlusconi. Due tesi opposte che si elidono a vicenda. Ma nessuna sorpresa.

Nelle capitali dell’Europa carolingia, l’Italia rimane un oggetto misterioso. Non ha voce sui grandi dossier, sebbene molto spesso ricorra alle arti del millantato credito. Appare rissosa e permalosa nei rapporti tra i suoi piccoli leader. Pronti a dividersi più che a costruire. Ed ecco allora la lettura di sempre sulla stabile instabilità dell’Italia. Sulla pochezza delle sue classi dirigenti. Tutte cose vere e incontestabili. Poi però capita che un italiano sui generis diventa, per una strana congiuntura astrale, governatore della Banca centrale europea. Non è un ortodosso. Può quindi capire le nuove sfide che gli sono di fronte. E battersi per affermare le sue idee contro i depositari di antiche quanti inutili certezze. E di conseguenza salvare l’euro, in procinto di sprofondare.

La morale è che in Europa nessuno ti regala niente. Gli spazi ognuno li deve conquistare, scendendo sull’arena. Quando l’Italia avrà compreso questo, avrà percorso un buon tratto di strada ed eviterà di attribuire ad altri quelle che, in prevalenza, sono solo proprie colpe e grandi inadeguatezze.

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