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Come un brusco risveglio in una gelida mattina invernale, il Coronavirus è piombato sulle certezze che da vent’anni sorreggono il mondo post-globalizzazione. Per alcuni lo shock è stato più forte, dice Lucio Caracciolo, “padre” della geopolitica italiana e fondatore di Limes, rivista che ha appena concluso il suo VII Festival a Genova alla presenza, fra gli altri, del premier Giuseppe Conte. Il “mito europeo”, spiega a Formiche.net, perde pezzi di fronte a due movimenti centrifughi. Il progressivo abbandono dell’Europa da parte del suo storico alleato, gli Stati Uniti. Il ritorno della dimensione statale, che ha trovato alcune potenze pronte, come la Germania, e altre, come l’Italia, gravemente impreparate.

Caracciolo, avete intitolato il vostro Festival “Occidenti contro”. Perché?

Ammesso che davvero ci sia mai stato un solo Occidente, oggi assistiamo a una divaricazione. Quell’amalgama geopolitico costruito sulle radici culturali greco-romane, cristiane e illuministe, quella comunità di valori comuni che unisce l’area euro-mediterranea, il Nord-America e, negli ultimi decenni, i residui oceanici dell’Impero britannico, dal Giappone all’Australia, dalla Corea del Sud alla Nuova Zelanda, vive una lenta e dolorosa biforcazione.

La causa?

Nasce oltreoceano, in America. Una superpotenza che oggi fatica a reggere i costi dell’impero, che vuole riportare a casa lavoro, produzione, know-how, senza rinunciare al suo primato mondiale. È un movimento che precede e in qualche modo prescinde dal fenomeno Trump. Gli si contrappone l’America di Joe Biden, che in parte si riallaccia al pensiero neoconservatore, ed è convinta di dover assolvere a una missione universale.

Il Vecchio Continente come ne esce?

Vive una sensazione di profondo abbandono da parte degli Stati Uniti, non si sente più garantita dall’alleato strategico. Questo ha portato Angela Merkel a dire che la Germania deve prendere il futuro nelle sue mani. Emmanuel Macron a decretare che la Nato è “cerebralmente morta”.

E Giuseppe Conte?

Conte ha firmato un memorandum of understanding con la Cina dal forte sapore geopolitico. Un tradimento dello schieramento occidentale, nato dalla convinzione, sbagliata, che il mondo risponda sempre al principio do-ut-des. Pensavamo di ricevere finanziamenti che non sono mai arrivati. Abbiamo invece ricevuto dagli americani sanzioni “morali” e materiali che lasceranno il segno.

Cosa ha portato a quella decisione?

L’idea originaria era fare dell’Italia un ponte per trasformare gli Stati Uniti nel terminale ultimo della Via della Seta. La competizione all’ultimo sangue per il primato tecnologico fra Stati Uniti e Cina dimostra che è stata una velleità.

L’Europa ha riscoperto una leadership con la crisi del Covid?

Più che l’Europa, la Germania. Sta rientrando nella Storia. Dopo 3/4 di secolo di “vacanza”, con le mani legate prima dalla divisione in due del Paese, poi dalla forte presenza americana, ora vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista, assumersi nuove responsabilità militari sulla scena internazionale. Per ovvie ragioni, questa tensione accresce un divario con Washington Dc che è ben più profondo delle personali antipatie di Trump.

In questi mesi l’Europa non sempre si è mostrata coesa di fronte alle gravi crisi regionali alle sue porte. Dal caso Navalny alla Bielorussia, fino alla guerra in corso in Nagorno-Karabakh.

Il 99% degli europei non sa neanche cosa siano il Nagorno e il Karabakh. La verità è che, a parte gli americani, ci sono solo due potenze in grado di decidere le sorti di quella partita, Russia e Turchia. Gli Stati Uniti stanno facendo leva su Ankara per contenere l’espansionismo russo, finora con scarsi risultati.

Nel frattempo, il Mediterraneo si è trasformato in una polveriera. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è convinto che l’Italia vanti un “potere gentile” per mediare nelle crisi regionali, dalla Libia alle tensioni fra Grecia e Turchia. È così?

Una visione irrealistica della politica estera. Nel Mediterraneo di gentile non c’è nulla. Siamo di fronte a un’escalation militare forse senza precedenti, che vede protagoniste potenze niente affatto gentili, dalla Russia alla Turchia, dalla Cina agli Stati Uniti. Quest’idea del soft power come via di uscita dalla politica di potenza è la stessa alla base di una grande illusione italiana.

Quale?

Il mito europeista. L’Italia ha una comunità nazionale, ma non riesce a valorizzarla. Per anni abbiamo immaginato che a Bruxelles esistano persone che ci indicano la retta via e compensano il nostro deficit di statualità. Abbiamo pensato che uno Stato debole ci avrebbe avvantaggiato nella corsa all’integrazione europea. Patetico. A questo disegno si deve la trasformazione dell’Italia in un Paese euroscettico, a tratti perfino eurofobo.

Però il Recovery Fund è stato un duro colpo per gli euroscettici. O no?

Anche qui, bisogna fare una tara fra mito e realtà. Il Recovery Fund è un grande aiuto, non la soluzione ad ogni problema. La Germania ci ha allungato una mano perché siamo un Paese sistemico: se saltiamo noi, salta tutto. A breve avremo un rapporto debito/Pil del 200%, siamo già un Paese a sovranità limitata. È presto per esultare.

Da dove si riparte?

Dalla costruzione di uno Stato efficiente, centralizzato. La crisi del virus ha portato a una follia, quella di un Paese in cui la debolezza del centro permette a entità regionali di perseguire logiche opposte partendo dalle stesse condizioni. Un altro, preoccupante segnale dell’insufficienza dell’apparato statale.

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