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“Abbiamo fatto un accordo con Eutelsat per una serie di satelliti in orbita sull’ Italia – ha detto l’amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi – e tra poco inizieremo un servizio che chiameremo Tim dovunque per portare la banda ultralarga anche in posti remoti. Nel 2021 il servizio sarà sperimentale ma già nel 2022 sarà attivo”. In pratica, Tim ha reso noto di aver fatto un accordo del valore (iniziale) di 150 milioni con Eutelsat per acquistare canali satellitari con cui portare la connessione voce, video e dati ovunque in Italia. Dove non c’è fibra arriva il satellite.

Quello prenotato da Tim è in orbita da gennaio, si chiama Konnect ed è molto performante, ha una propulsione al 100% elettrica, che vuol dire che i suoi motori non usano carburante liquido (che pesa centinaia di Kg) e quindi si risparmia peso al lancio e si possono montare più antenne e transponder per dare maggiore performance. Infatti il satellite offre una capacità (si chiama throughput) di 75 Gb al secondo e in combinazione con terminali wi-fi può fornire un accesso Internet ultra-veloce superiore a 100 Mbps grazie alla sua copertura a “spot-beams” (cioè consente di concentrare energia in aree diverse ottimizzando il traffico di comunicazioni). Basta installare una piccola antenna parabolica e un modem e ci si connette a Internet iper veloce.

Nel 2022 arriverà anche il fratello maggiore Konnect Vhts (Very high throughput satellite) in costruzione presso la Thales Alenia Space che ha già costruito il primo. Prima considerazione: Thales Alenia Space è la joint venture tra Thales (67%) e Leonardo (33%) e il ramo d’azienda italiano ha realizzato l’on-board computer e tutti i beacon, amplificatori, ricevitori e generatori di frequenza in banda Ka (20-40 GHz) e sta realizzando altri componenti elettronici fondamentali del Vhts. Quindi un grande motivo di orgoglio per un lavoro di altissima specializzazione senza il quale l’Internet via satellite sarebbe una chimera.

Seconda considerazione: l’accordo di Tim appare tempestivo nella contingenza Covid-19 ed è ovvio il perché. Nel momento in cui tutto il paese entra e esce da lockdown più o meno stringenti a seconda del colore delle regioni, il Digital divide è entrato di prepotenza nella carne viva degli italiani. Se ne parla da vent’anni ma adesso lo si sperimenta nella realtà. Cos’è il Digital divide? È il divario tra chi ha un accesso (adeguato o meno) a internet e chi non ce l’ha (per scelta o no). Non ne deriva solo un’esclusione dai vantaggi della società digitale (che non sono gli acquisti su Amazon o su Just Eat) ma in tempi di pandemia anche dalla possibilità di non avere danni socio-economici e culturali. Si pensi alla didattica a distanza per tutte le scuole e le università. Si chiama Dad e per essere efficace occorre che ogni nucleo familiare abbia dispositivi e connessione wi-fi idonei. Cosa per nulla scontata.

Ecco che l’iniziativa di Tim si rivolge con tutta probabilità anche a esigenze come queste, e acquistando capacità satellitare punta a fornire al maggior numero di città, Paesi e comunità le connessioni Internet a banda larga. Appare ragionevole e anzi auspicabile.

Terza (e ultima) considerazione: negli anni novanta la Thales Alenia Space (che si chiamava Alenia Spazio ed era al 100% italiana) progettò, costruì e lanciò nello spazio per conto di Telecom Italia (che oggi è Tim) due satelliti, Italsat F1 e F2, che avevano le stesse funzioni dei moderni Konnect (con gli ovvi distinguo di dimensioni e tecnologie del tempo). Italsat era parte di un progetto di indipendenza strategica nelle telecomunicazioni che l’Italia aveva intrapreso con lungimiranza sin dagli anni sessanta creando la Telespazio, joint venture tra Stet, ItalCable e Rai, proprio per le nascenti comunicazioni satellitari. In quegli anni si formarono i consorzi internazionali, Intelsat, Inmarsat e Eutelsat, nei quali l’Italia si rivelò uno dei paesi più attivi.

In Eutelsat la quota italiana superò il 20%. In un’ottica di intelligente sinergia il paese realizzava un duplice volano: da un lato era inserito nei consorzi internazionali che operavano le flotte spaziali e dall’altro faceva crescere un’industria che progettava satelliti all’avanguardia: Sirio lanciato nel 1977 primo in Europa a sperimentare l’uso delle alte bande di frequenza Ku e Ka, e poi i due Italsat (sempre in banda ka) che a buon titolo potrebbero dirsi gli antenati dei Konnect. In un mondo competitivo e sempre più affamato di telecomunicazioni, disporre di un’industria qualificata e nel contempo di un ruolo significativo nei consorzi satellitari avrebbe consentito di sviluppare un crescente settore economico e di minimizzare il Digital divide.

Accadde invece qualcosa di diverso. Nell’ottica delle privatizzazioni, il ruolo dello Stato venne ridotto a favore dei privati. Il risultato netto fu che l’Italia uscì da tutte le partecipazioni nei consorzi internazionali. Nel 2001 la neo-privatizzata Telecom Italia (dove era confluita la Telespazio) vendette a Lehman Brothers il 20,4% di Eutelsat, il 2,8% di Intelsat, il 2,1% di Inmarsat. In pratica tutto il capitale investito dallo Stato nelle comunicazioni satellitari. Un po’ di cifre: nel 2001 la Eutelsat aveva una flotta di 24 satelliti e 900 milioni di euro di ricavi con margini operativi a 2 cifre; nel 2018 operava 37 satelliti con ricavi di 1,4 miliardi di euro e un backlog di oltre 4 miliardi (pari a tre anni di esercizio). Un buon risultato per gli azionisti, che oggi sono al 19,8% la Bpi France, al 7,5% il Fonds Stratégique de Participations, al 6,7% la China Investment Corporation e il restante 66% è flottante in borsa.

Tenendo conto che in Italia si spendono ogni anno dai 130 ai 150 milioni per comprare capacità satellitare (broadcasting Tv, servizi Vpn, sicurezza, ecc.) a cui oggi si aggiungono i 150 milioni dell’accordo Tim-Eutelsat, c’è davvero da riflettere sulla politica non solo industriale ma soprattutto strategica che i governi hanno espresso negli ultimi vent’anni nel settore spaziale. Le conseguenze di simili decisioni strategiche si vedono, nel bene o nel male di un paese, dopo minimo dieci anni e non dopo un esercizio di bilancio (magari in positivo) di un’azienda. E ciò vale anche per il governo attuale.

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