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Se c’è un elemento che torna costantemente nel racconto di queste prime settimane di amministrazione Biden è il tema della cosiddetta “Alleanza delle Democrazie”. Argomento non nuovo nella narrazione politica del multilateralismo occidentale (e liberal-democratico) a cui il nuovo presidente Joe Biden sembra interessato a dare sostanza. E ne dà quando annuncia la riduzione degli aiuti al Myanmar davanti al ritorno dei generali (definendolo “colpo di stato” hanno spazio normativo per la decisione), o quando dichiara — per bocca del segretario di Stato che per ora del tema è, giustamente, vettore — che gli Stati Uniti sono “profondamente preoccupati per le azioni della Russia nei confronti di Aleksey Navalny, chiedendo il “rilascio immediato” del leader della lotta alla corruzione anti-putiniana.

Parole al limite dell’ingerenza, sfruttate dai rivali come la Russia proprio per screditare le richieste interne e raccontare di un’America che vuol deliberare su questioni di altri Paesi, e dunque vuol decidere da sola — o con un gruppo di amici democratici ognuno con le proprie controversie — le sorti del mondo. La retorica non è difficile, visto che anche nel cosiddetto Occidente ci sono pensieri critici sugli Usa, sia tra leader politici che nell’opinione pubblica. La chiave di questa narrazione è già stata usata più volte, e caratterizza anche l’azione propagandistica cinese. Un esempio complesso di certe dinamiche: al totem ambientalista Greta Thunberg che commenta la conferma della condanna di Mosca contro Navalny riprendendo un articolo del tempio liberal New York Times e contestando all’Europa di essere troppo malleabile con la Russia – in quanto agganciata al progetto del gasdotto Nord Stream 2 (pipeline che collegherà la putiniana Gazprom alla Germania) –  risponde con un “Free Assange” il capo dell’ufficio Ue del China Daily, media che si occupa della propaganda governativa cinese.

Chi invece si muove sotto questa linea pro-Democrazie (maiuscolo per indicare quei Paesi che condividono per storia e mentalità non sono la forma di governo, ma la visione del mondo occidentale e americana, nda) è il Regno Unito. La Global Britain post-Brexit passa anche da qui. Punto di contatto tra Boris Johnson e la Washington democratica di Joe Biden, il tema è un bel piano su cui giocarsi la nuova “Special Relationship”. Mosca ha provato il passo in avanti: sfruttando il ruolo da presidente di turno del G7, con BoJo che ha provato a invitare alla riunione dei Grandi anche India, Corea del Sud e Australia.

L’idea è costruire il “D10”, il gruppo dei Democratic Ten: mossa coerente con la visione pro-Democrazie, che troverebbe nel passato precedenti (altri paesi hanno già fatto parte di summit allargati del formato). Ma ci sono già riserve. Il punto è che il mondo è cambiato. La contrapposizione che si creerebbe è netta: da un lato l’Occidente e i like-minded, dall’altro i rivali strategici degli Stati Uniti, Russia e Cina. Storcono il naso gli europei — Francia, Italia e Germania — tutti in fase di dibattito se mantenere ancora l’ingaggio con Mosca e Pechino più sul piano retorico che su quello pratico. “Non vogliamo una nuova guerra fredda”, per dirla come Angela Merkel. Si oppone apertamente il Giappone. Già, perché all’interno di quelle Democrazie c’è anche una competizione sfrenata, su cui il caso di Tokyo è emblematico.

Ritrovata la dimensione strategica, i nipponici non gradiscono l’idea inglese di far firmare ai tre alleati asiatici  la “Carta sulle società aperte” una volta invitati a Carbis Bay – nella parrocchia civile di St. Ives, in Cornovaglia, dove si svolgerà il summit. Tokyo non vuole istituzionalizzare il D10, preferisce che si resti a un formato ristretto con qualche photo-opportunity. Innanzitutto perché teme che gli altri tre possano rubargli la scena nell’Indo-Pacifico come partner preferenziale di Washington e dell’Occidente – Seul su tutti, ma anche gli altri due, già parte del Quad, formato che Washington intende istituzionalizzare. Poi c’è la volontà, come nel caso della “Nato Asiatica”, di non farsi percepire da Pechino sulla rampa di lancio verso l’aumento dell’ostilità, aspetto condiviso certamente con gli europei. E infine il tema forse più aspro: il rischio di rafforzare eccessivamente Londra, che vuole mettersi nel ruolo di primus inter pares delle nazioni che vengono dopo Usa e Cina – posizione condivisa anche questa con gli europei, che sentono ancora il rancore della Brexit.

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