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Forze di peacekeeping russe si stanno schierando lungo la linea del fronte nel Nagorno-Karabakh e nel corridoio di Lachin tra la regione e l’Armenia. La durata del loro incarico è di cinque anni, con proroga automatica di altri cinque: risultato dell’accordo tra Armenia, Azerbaigian e Russia siglato martedì per fermare i combattimenti in Nagorno-Karabakh.

Mosca, che ha già basi militari a Gyumri (Armenia), rafforza ulteriormente la sua presenza nel Caucaso meridionale; da quanto si vede dalle immagini che riprendono l’arrivo delle forze di pace russe, sembra che il contingente sia composto anche da armamenti pesanti. Un successo per la Russia? “Alla fine di queste sei settimane di crisi, quello che è prevalso è un allineamento valoriale: hanno vinto i dittatori”, spiega a Formiche.net Nona Mikhelidze, head of the Eastern Europe and Eurasia Programme dell’Istituto affari internazionali.

L’analista intende l’asse che si è formato tra l’azero Ilham Aliyev, il russo Vladimir Putin e il turco Recep Tayyp Erdogan (che sostiene l’Azerbaigian): tre presidenti alla guida di sistemi autoritari e autocratici. “L’Armenia – continua Mikhelidze – è invece una giovane democrazia, dove il premier, Nikol Pashynian, ha concentrato molto della sua narrazione in questi ultimi due anni sul differenziare se stesso e il suo Paese da quelli attorno. E questo si è visto anche durante queste sei settimane di conflitto”.

Alla Russia questo posizionamento di Pashynian non è mai piaciuto, e probabilmente il Cremlino ha sfruttato la situazione per una sorta di vendetta. “Le riforme democratiche che aveva intraprese Pashynian – spiega l’esperta dello Iai – e la lotta alla corruzione, (che ha portato in carcere anche alcuni oligarchi molto collegati a Mosca all’ex presidente filo-russo, ndr), non sono state apprezzate dal Cremlino. Adesso Putin può vendicarsi”.

Mosca, nonostante abbia un accordo di cooperazione anche militare con Erevan, è sempre sembrata distante dall’intervenire. Conscia di una situazione sul campo, ha sempre sottolineato come anche con Baku ci fosse una sostanziale partnership. L’avanzata azera degli ultimi giorni, entrati nella città simbolica di Shusha, hanno portato i russi a spingere gli armeni verso la resa. Con l’accordo, sette regioni occupate dall’Armenia attorno al Nagorno-Karabakh saranno restituite all’Azerbaigian, e gli sfollati e i rifugiati azeri torneranno alle loro case sotto la supervisione dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Pashynian è stato accusato di tradimento dai suoi cittadini. Il governo armeno è in crisi, messo in tale situazione da una decisione spinta dalla Russia, che così ha bloccato il timido tentativo democratico del Paese. “In Russia – spiega Mikhelidze – stanno riorganizzando le proprietà. Se fino a qualche anno fa il conflitto congelato veniva visto come un metodo per avere una doppia leva, su Armenia e Azerbaigian, ora l’interesse russo è cambiato. D’altronde, lo stesso Aliyev ha dato dimostrazione di essere meno interessato a guardare verso l’Occidente”.

Dalle vecchie inclinazioni verso Ue e Nato, Baku, anche forte delle proprie capacità economiche (sostanzialmente legate al settore estrattivo, ndr) ha preso una posizione via via più indipendente, anche connessa a un fatto: per essere accolto tra le istituzioni occidentali, Aliyev avrebbe dovuto accettare delle riforme democratiche, cosa che non ha visto come conveniente. “La Russia ha notato tutto ed è capace di cambiare i propri approcci davanti al cambiamento delle situazioni. I rapporti bilaterali con Baku sono stati rimodulati, e, frutto anche della politica estera multivettoriale azera, ora con Mosca c’è questa continuità valoriale ben apprezzata al Cremlino”.

Aliyev ha sempre cercato il conflitto di riconquista sul Nagorno-Karabakh anche per giustificare la propria leadership autoritaria, che ora è cementata nella storia del Paese, superando per certi versi anche l’immagine eroica del padre. Differentemente, Pashynian ha impostato parte del suo pensiero nel tentativo di liberare la politica armena da una situazione, quella del territorio conteso, di cui era diventata ostaggio.

Un attore centrale, citato precedentemente, è la Turchia. Erdogan ha rivendicato la continuità culturale con l’Azerbaigian per giustificare l’assistenza militare agli azeri. Alla fine, anche nel Nagorno-Karabakh s’è visto l’accoppiamento turco-russo già segnato in diversi teatri di crisi. “Mosca preferisce trattare con Ankara. La fine della crisi ha di fatto tolto di mezzo il Gruppo di Minsk dell’Osce, evidenziando ulteriormente l’incapacità delle potenze occidentali (in particolare Francia e Stati Uniti) di esercitare una qualche influenza su un negoziato durato anni”.

L’accordo russo di questa settimane è infatti arrivato dopo due cessate il fuoco falliti mediati prima dalla Francia e poi dagli Stati Uniti. Sebbene secondo Mikhelidze l’intervento turco è stato esagerato, ed è stato lo stesso Pashynian a svelare pubblicamente che già nel 2018 aveva compreso che sarebbe stato bene cedere alcuni dei territori occupati davanti all’aumento della forza militare azera, sul campo si è riprodotto uno schema noto. Russia e Turchia si sono fronteggiati tramite gli alleati interposti, poi hanno rapidamente raggiunto un’intesa frutto di un rapporto costi-benefici che vede in questo meccanismo di spartizione la formula per giocare tra sfere di intervento e di influenza – chiaramente ai danni dell’asse occidentale.

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