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Come capita talvolta nelle vicende italiche, il Piano nazionale di ripresa e resilienza è stato approvato la notte del 13 gennaio in extremis a crisi di governo già sostanzialmente aperta, e non a caso con l’astensione delle ministre di Italia Viva. Dopo più di un mese rispetto a quel 7 dicembre in cui una prima bozza abbastanza generica e poco concreta era stata posta all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, e con mutamenti molto significativi anche rispetto alla bozza più dettagliata del 29 dicembre, ora si dispone di un testo di 172 pagine che descrivono i programmi di spesa sulla base dei quali il governo chiederà alla commissione europea i 209 miliardi tra prestiti e trasferimenti per il 2021/2026 nell’ambito del progetto Next Generation Eu per rilanciare l’Unione dopo la pandemia.

Il testo è frutto della scelta, grazie anche all’impulso di Matteo Renzi, di spostare la sede della rielaborazione del piano al ministero dell’Economia, sotto la guida del ministro Gualtieri e con la partecipazione dei ministri degli Affari europei e della Coesione territoriale. Per accogliere le istanze che provenivano dai partiti e da altre componenti si è ritenuto di allargare la torta, aggiungendo ai 196 miliardi del Recovery Fund in senso stretto, una fetta del fondo coesione e sviluppo e 13 miliardi del React Eu per l’emergenza Covid, oltre a circa 7 miliardi dei fondi strutturali europei. Così il totale dell’ammontare del piano sale a 223 miliardi che si dividono in 6 macro capitoli:

– 68,9 miliardi per la rivoluzione verde
– 46,2 miliardi per la digitalizzazione
– 32 per le infrastrutture
– 28,5 per istruzione e ricerca
– 27,6 per inclusione e coesione
– 19,7 per la sanità

Se si dà uno sguardo dentro i capitoli del testo si ritrovano modifiche significative anche rispetto alla bozza del 29 dicembre, effetto delle istanze dei partiti e del lavoro di riequilibrio svolto ad opera dei ministri competenti per materia e per “natura” che hanno lavorato alla ristesura del piano. Per quanto riguarda la sanità, ad esempio, che aveva avuto una dotazione di 9 miliardi, che non aveva scontentato solo Renzi o il ministro della Sanità, ma un po’ tutti, si passa da 9 a 20,7 miliardi, di cui 7,9 destinati all’assistenza di prossimità. 5 miliardi in più vanno alla voce cultura e turismo che sale da 3 a 8, così come 5 miliardi in più vanno all’alta velocità ferroviaria, in particolare nel Mezzogiorno. Altre voci che hanno un importante impatto sia per quanto riguarda i giovani sia per quanto riguarda il futuro del Paese come “istruzione e ricerca” o il potenziamento delle competenze e il diritto allo studio fanno registrare significativi incrementi passando rispettivamente da 19 a 28.5 miliardi e da 10.7 a 16.7 miliardi.

Così come risulta nettamente accresciuta fino a 12.6 miliardi la voce “politiche per il lavoro”. Per quanto riguarda poi l’impianto complessivo del piano, sale la parte dedicata agli investimenti che ora ammonta al 70% delle risorse che verranno chieste a Bruxelles, mentre viene ridotta (era proprio il caso e sarebbe il caso che diventasse la regola per tutta la politica economica del governo) la parte dedicata agli incentivi, ai bonus, ai micro progetti in questo modo migliorerebbe l’impatto del piano sulla crescita, con una stima di 3 punti in più fino al 2026.

Certo, non siamo ancora ad un progetto che rechi una vera vision complessiva per lo sviluppo del Paese con una vera programmazione a medio termine, tanto più se è vero, come ha osservato il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che si è espresso in una intervista al Corriere della Sera in termini molto critici sul Piano, che 65 miliardi, del Piano sono a copertura di provvedimenti già assunti.

Siamo comunque di fronte ad un passo avanti rispetto ad un cammino che sin qui era stato un po’ complicato e dilettantesco. Ultimo, ma non certo meno importante, resta il fatto che ancora una volta per uno scontro latente di poteri tra partiti, tra il premier ed altri ministri, non si risolve e si rinvia il nodo fondamentale della governance, del modello di attuazione, delle centrali appaltanti del Recovery Plan che è una garanzia cruciale sia per la funzionalità e l’efficacia del piano sia per la credibilità e il rapporto rispetto all’Unione Europea.

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Ancora una volta, per uno scontro latente di poteri tra partiti, tra il premier ed altri ministri, non si risolve e si rinvia il nodo fondamentale della governance, del modello di attuazione, delle centrali appaltanti del Recovery Plan che è una garanzia cruciale sia per la funzionalità e l’efficacia del piano sia per la credibilità e il rapporto rispetto all’Unione Europea. Il commento di Luigi Tivelli

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