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Se la situazione internazionale è dinamica, da un certo punto di vista la si potrebbe persino definire “frizzante”, quella italiana è al contrario appare un po’ statica, per usare un eufemismo. Più volte ho ricordato come il nostro governo stenti a prendere decisioni sia strutturali sia congiunturali: e adesso stiamo vivendo una fase congiunturale difficile che richiede decisioni pronte e sagge.

In ballo c’è la collocazione che il nostro paese avrà nel panorama economico futuro: tra le nazioni di testa, che hanno saputo sposare le moderne modalità di sviluppo – mi riferisco soprattutto all’economia circolare – o tra quelle di secondo piano, se non addirittura di retroguardia. Vorrei evitassimo di fare la fine dell’asino di Buridano: è tempo di risolvere l’alternativa costruendo una strategia di paese che si fondi su poche e chiare mosse. La crisi determinata dalla pandemia ha costretto le istituzioni politiche e finanziarie europee ad “aprire la cassaforte” e concedere agli stati membri risorse inedite – come è inedita la condizione in cui ci stiamo muovendo – che dovranno essere utilizzate per fare ripartire l’economia. In estrema sintesi, alcuni comparti industriali nazionali dovranno sfruttare l’occasione del supporto pubblico per convertire le proprie attività in soluzioni che abilitino le opportunità di economia circolare.

Le possibilità sono innumerevoli: il nostro paese ha comunque infrastrutture industriali che si prestano a una riconversione coerente con l’economia circolare: penso al sito siderurgico di Taranto (ex Ilva), che potrebbe essere in parte riconvertito in un hub destinato al trattamento e al riciclo dei rifiuti di eccellenza o a un polo per l’impiantistica finalizzata al recupero di materia utile al settore industriale locale come i rottami, ma anche quei materiali che nei prossimi 10 anni aumenteranno di volume e necessiteranno di impiantistica dedicata quali batterie pannelli fotovoltaici, pneumatici usati, fanghi, terre rare.

La scelta di indirizzare il sistema industriale italiano verso l’economia circolare ha un prerequisito ovvio: un piano energetico moderno che si liberi dalla trappola ideologica rappresentata da una finta contrapposizione ambiente contro lavoro fino agli estremismi che prospettano una decrescita felice o ai negazionisti dei cambiamenti climatici, per puntare a quella transizione energetica basata sul mix gas-rinnovabili che sola può garantire una competitività del paese. E qui ci imbattiamo in una grande ipocrisia italiana: mentre l’Ue decide di puntare sul gas naturale per il mix energetico, noi decidiamo con il fantomatico acronimo normativo Pitesai di bloccare la nostra produzione nazionale e che la strada vada percorsa utilizzando solo il gas di importazione. Quindi serve chiarezza e ribadire che non possiamo fare a meno del gas naturale italiano per diversi motivi: non solo perché serve alla produzione di elettricità, al riscaldamento delle case e a mantenere il sistema di trasporti, ma anche perché tale produzione permette di mantenere alto il livello occupazionale e professionale di una delle nostre filiere più importanti, quella energetica.

Non siamo capaci di uscire da questa trappola ideologica, come ho detto prima, e mettere in piedi una programmazione seria per estrarre gas naturale dai nostri giacimenti nazionali, per i quali cui Eni possiede già le concessioni. Parlo degli stessi giacimenti per i quali l’azienda due anni fa presentò un piano di investimenti consistente, che avrebbe prodotto ricchezza per i territori coinvolti. Se prevedessimo di aumentare la produzione in Adriatico a oltre 100mila barili equivalenti al giorno, dai meno di 40.000 attuali avremmo benefici economici non solo sulla bolletta energetica ma anche sull’economia dei territori interessati. E ci permetterebbe di partecipare al grande gioco geopolitico che coinvolge un po’ tutte le potenze economiche e politiche, nel Mediterraneo, nel contesto di una sfida globale.

Qui va denunciata un’altra ipocrisia che sta andando avanti da molto tempo: si tessono le lodi dell’efficienza imprenditoriale di Eni riguardo alle attività che svolge all’estero e nello stesso tempo la si critica e le si tarpano le ali per quelle in patria. E quando si parla di attività “italiana” non ci si riferisce solo a quella estrattiva ma anche allo sviluppo della tecnologica made in Italy del settore Oil&gas. Un esempio? La piattaforma Tolmount che è salpata da Ravenna con destinazione regno Unito: una commessa del valore di 125 milioni di euro affidata alla Rosetti Marino che ha progettato e costruito un manufatto da 5.500 tonnellate, con oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati.

Ma il no al gas nazionale resta perentorio. Guardiamo all’esempio norvegese. Hanno aumentato gli investimenti proprio adesso.

Intendiamoci: la nostra produzione interna non eliminerebbe definitivamente la dipendenza italiana dalle importazioni, in primis quelle dalla Russia.

L’obiettivo a lungo termine è un mondo nel quale l’energia è prodotta solo da fonti rinnovabili? Sono d’accordo, ma non è domani e neppure dopodomani: dobbiamo arrivarci. Ci serve una strategia per raggiungerlo e l’Ue, non i produttori di gas o petrolio, ha indicato che nella fase di transizione deve essere affrontata utilizzando un mix di gas e rinnovabili. Un giorno ricaricheremo lo smartphone e l’automobile, magari usando lo stesso cavo… grazie all’elettricità che produrremo dal vento o dal sole, ma oggi le rinnovabili sono ancora fonti intermittenti, che non garantiscono una potenza costante. La nostra è una società energivora, prima ancora che digitale e per il momento la dobbiamo alimentare con un mix bilanciato. Un altro punto non secondario è che ogni politica di incentivazione delle fonti rinnovabili in questo momento può creare disuguaglianze, perché comportano costi che non tutti possono permettervi. L’esempio delle auto elettriche è paradigmatico. Lo stesso Green Deal europeo evidenzia che bisogna evitare il rischio della povertà energetica per le famiglie che non possono permettersi i costi di un servizio fondamentale come l’energia.

Infine due parole sull’Eni, che il principale attore sul palcoscenico del gas naturale italiano. È una società partecipata al 30% dallo Stato e realizza in Italia il 7% della produzione in Sicilia, Basilicata e nell’Adriatico. Non è poco e per capirlo invito a considerare l’impatto della produzione italiana sul bilancio totale del cane a sei zampe. Eppure si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre 50 anni.

Eni è al top nell’esplorazione, nella sicurezza delle estrazioni. Nella ricerca e sviluppo delle tecnologie per la decarbonizzazione. La vera sfida è la tecnologia, la conoscenza che ci permette di produrre energia nel modo più sostenibile possibile senza aspettare la scoperta della ‘risorsa’ magica che ci liberi dal petrolio.

Proprio lo sviluppo tecnologico è per esempio ciò che rende Ravenna uno dei siti più adatti al mondo per un progetto di CCS per la cattura e lo stoccaggio della CO2, come anche la sua vicinanza tra le fonti di emissione della CO2 ed i giacimenti esausti che ne consentono lo stoccaggio. Nei fatti, aumentare la produzione di gas a Ravenna con questo progetto significa produrre metano ad emissioni zero per il bene del nostro Paese e del mondo. Un progetto che risponde proprio alle condizioni definite dal Green Deal europeo: la realizzazione di un innovativo distretto industriale italiano che, analogamente a quello degli anni 50 sorto sotto l’impulso di Enrico Mattei con la costruzione delle piattaforme, della ricerca e sviluppo della chimica, potrebbe essere poi esportato in tutto il mondo.

Ilva, Eni e non solo. La competizione per l’energia e la (non) strategia dell’Italia

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