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Pochi temi nella recente storia italiana hanno avuto effetto polarizzante, nella politica come nella società, come quello della immigrazione. Al solito, sulla questione si ripropongono due fronti pregiudizialmente opposti su base ideologizzata, che si identificano più su valori che su fatti. Il dato che sorprende è che entrambi gli schieramenti denotino un’evidente scarsità di soluzioni sostenibili ed efficaci nel medio-lungo periodo. Imbullonando la discussione sul tema di fondo dell’accogliere (salvo poi non integrarli nonostante l’esborso considerevole di denaro pubblico) versus rigettare i migranti (senza se e senza ma, soprattutto quelli irregolari e non europei), il confronto è da tempo diventato uno scontro.

La trama si è incartata e non si intravvede una via d’uscita: né politica di mediazione; né tecnica di soluzione. Nonostante i fiumi di inchiostro spesi in materia, si possono ancora avanzare alcune considerazioni per limitare la tipica attitudine nostrana del partire con le prognosi senza avere chiara la diagnosi.

La prima osservazione è antropologico-politica. Stiamo di nuovo pagando un prezzo molto alto per la retorica che affligge da tempo la nostra comunicazione pubblica e che troppo spesso fa dimenticare il nostro gap cronico tra forma e realtà. Aspetti di governo del problema vengono caricati di una forza morale che non trova corrispettivi in altri Paesi. Come ama ricordare Nadan Petrovic, tra i massimi esperti europei sul tema, solo in Italia si parla di spiritualità riferendosi ad un problema in realtà molto tecnico come l’accoglienza dei migranti (“spirito dell’accoglienza” non ha corrispettivi in lingua inglese). E al contempo si tralasciano specifiche misure finalizzate all’integrazione per virare invece su attività di soccorso che possono durare anche anni, con risvolti imprenditoriali per chi ne gestisce l’implementazione.

In altre parole, l’uso costante della retorica non serve tanto per promuovere valori quanto per nascondere l’incapacità di trovare soluzioni tecniche o, peggio, il coraggio politico di prendere decisioni impopolari. Un po’ come avvenne durante la guerra in ex-Jugoslavia, quando svariati sindaci italiani, temendo le reazioni del proprio territorio di fronte a interventi a favore dei rom, preferirono presentarli come generici aiuti ai “profughi di guerra dei Balcani”. È un’ambiguità istituzionalizzata, arrivata ai giorni nostri e coniugata alla crisi del momento nel lasciare volutamente una costante ambiguità tra migranti economici, profughi umanitari e asylum seeker per motivi politici.

Un’altra riflessione sul tema riguarda più nello specifico le concrete politiche pubbliche da potenziare per gestire al meglio il problema. L’immigrazione nel suo complesso viene a oggi in Italia ancora trattata più come problema di sicurezza interna che come questione di relazioni internazionali. Il che comporta uno scarso uso della politica estera nel trattare la questione. Alla strana udienza per il caso Gregoretti, per esempio, sono stati invitati a comparire i titolari di Interni, Difesa e Infrastrutture e Trasporti; assente la Farnesina, evidentemente irrilevante nell’occasione. Le poche volte che la questione ha una dimensione internazionale, è solo a livello multilaterale (soprattutto a Bruxelles) e per via della presidenza del Consiglio. E la vicenda viene trattata nel contesto generale della negoziazione europea sulla flessibilità dei conti pubblici italiani piuttosto che sul piano tecnico per trovare una soluzione specifica. Viene ridotta la dimensione bilaterale che invece — come la liberazione in Libia dei pescatori di Mazara del Vallo dimostra — rimane la strada maestra da percorrere per risolvere concretamente questioni nel mutevole contesto africano.

Il problema è che nel caso degli aiuti ai migranti non sempre è chiaro quale sia la controparte bilaterale. Nello schema classico della relazione di aiuto tra Stato-donatore e Stato-beneficiario a mancare sono spesso gli elementi minimi necessari per attivarla. Da un lato, non è chiaro chi sia lo Stato donatore. Le Ong non operano per conto dell’Italia (dove esse portano i migranti salvati) né è chiaro se tra i loro finanziatori vi siano altri Paesi che, in ogni caso, non vogliono comparire e intervenire come donatori ufficiali.

Dall’altro, non è nemmeno chiaro chi sia lo Stato beneficiario: quando si salvano dei migranti, il Paese cui essi appartengono non li riconosce come propri e non rafforza per questo un rapporto diplomatico con il Paese (l’Italia) che li accoglie. Un’azione di politica estera mirata al problema dei migranti dovrebbe dunque attivarsi in anticipo rispetto al loro arrivo sulle nostre coste; creare prima e potenziare poi quell’asse diplomatico dedicato con i Paesi di loro provenienza che ad oggi è debole o inesistente.

Con un coinvolgimento più convinto e organico delle nostre rappresentanze diplomatiche sul campo; risorsa di eccellenza usata molto meno di quanto sarebbe auspicabile. La buona notizia è che ciò richiede una capacità tecnica di politica estera che la Farnesina possiede (anche se, ahimè, le sue doti sono in genere riconosciute più all’estero che in Italia). La cattiva è che serve un coraggio politico che, invece, manca trasversalmente ad un ceto di governo che dalla fine della Prima Repubblica naviga — non solo sulle questioni internazionali — a orizzonte quotidiano e predilige la retorica del dire bene le cose, prima di porsi il problema di come farle.

Un po’ come avviene in questi giorni di Covid-19. Quando, ancora lontani dall’avere un vero piano di vaccinazione anti-pandemico nazionale, ne abbiamo però già sviluppato il logo (grazie a un architetto).

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