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Accettare gli smartphone come “secondo cervello” o considerarli una dipendenza? Tenerci stretta la nostra privacy o aprirci alle interazioni virtuali entrando nell’agorà digitale? Lasciare che l’algoritmo ci “guidi” nella scelta dei nuovi amici e dei contenuti-che-potrebbero-piacerti o alla vecchia maniera, di-testa-nostra?

Sono queste alcune delle domande poste da “The social dilemma”, il docufilm del momento. Lanciato da Netflix, contiene interviste e riflessioni a un folta schiera di protagonisti “dissidenti” della rivoluzione digitale. Gli insider ci dicono quello che in fondo sapevamo già: ci sono effetti perversi prodotti dall’uso e dalla diffusione dei nuovi media.

Lo sapevamo eppure all’improvviso ne siamo turbati. Lo sapevamo perché ci eravamo ormai accorti di come la nostra attenzione si potesse distrarre molto più facilmente di prima. Lo sapevamo perché da anni sappiamo che il markentig delle aziende funziona nel ritagliare i nostri “profili” e nello studiare i nostri percorsi d’attenzione. Tutto questo lo sapevamo bene, ma credevamo ancora di essere padroni in casa nostra. Il sole girava ancora intorno alla terra.

Attraversando l’oceano per parlare di psicoanalisi negli Stati Uniti, Freud disse ai suoi collaboratori: “Non sanno che gli stiamo portando la peste”. Secondo Freud gli americani si credono artefici del proprio destino, stavano per scoprire di non esserlo mai stati. La psicoanalisi avrebbe infatti prodotto una grande ferita narcisistica per l’umanità: non è l’Io cosciente che decide tutto, perché dentro di noi c’è qualcosa di-cui-non-sappiamo, che chiamiamo inconscio. Se lo ignori, rischi di esserne schiavo, se lo conosci, puoi entrarci in trattativa, entro certi limiti…

Sono passati più di cento anni e ora sappiamo molte più cose dell’inconscio di cui parlava Freud, compreso il fatto che anche le relazioni, i gruppi e le organizzazioni vi sono fondate. Le relazioni hanno un loro inconscio e dentro ognuno di noi c’è una gruppalità (le persone che si sono prese cura di noi ma anche la rete sociale affettiva in cui siamo immersi) che ci organizza. C’è sempre un Altro dentro di me che mi abita.

Vedere “The social media” per molti ha avuto l’effetto traumatico di una sveglia improvvisa. Quello che spiazza e crea l’effetto perturbante è il fatto che sia completamente impersonale, apparentemente neutro, ma invece con precise finalità. Orientato nella sua logica eppure non attribuibile ad alcuna soggettività precisa.

In principio fu Black Mirror. La serie tv nata nel 2011 metteva in scena l’umanità di un futuro prossimo. Tra chip installabili direttamente nel cervello e memorie umane scaricabili in rete ci faceva vedere una realtà distopica. Oggi le questioni che ci preoccupano di più sono l’emergere di malessere, le gogne mediatiche, i suicidi per la mancata accettazione, la dipendenza da smartphone, la rincorsa verso il riconoscimento sociale. Realtà nuove in cui ci siamo ritrovati quasi distrattamente.

L’algoritmo non ha un corpo, non ha affetti. Sembrerebbe un pezzo di realtà invisibile e totalmente imparziale. Qualcosa che i nostri sensi non colgono direttamente, che le nostre menti fanno fatica a rappresentarsi. L’algoritmo è traumatico nei suoi effetti quanto nella sua natura non-umana. Eppure l’algoritmo è un prodotto culturale, pensato e costruito da esseri umani per altri esseri umani. Può essere cambiato. Può essere modulato. E noi possiamo scegliere di usare i nuovi media in modo diverso. Possiamo decidere di essere consapevoli.

The social dilemma, se l’algoritmo diventa il nuovo "inconscio". Il commento di Buoncristiani

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