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I Cinque Stelle sono un movimento senza identità e valori. La più parte delle idee, alquanto insensate e velleitarie, su cui si era abbozzata una specie di identità negli anni scorsi sono andate perse a contatto con la realtà, che implacabile ha presentato, come era immaginabile, i suoi conti. Non è perciò da meravigliarsi che dirigenti e parlamentari cerchino per il momento solo di preservare il potere che hanno inaspettatamente conquistato e costruirsi un futuro personale o per il proprio gruppo.

Il risultato è una frammentazione e divisione interna a dir poco ingovernabile (il portavoce Vito Crimi ne sa qualcosa) che trova il suo equilibrio essenzialmente nella spartizione delle nomine e del potere che la presenza al governo garantisce. Basta così un piccolo spostamento per generare un effetto a catena nel “partito” che può portare a un nuovo equilibrio, precario anch’esso come il precedente, o all’implosione, finora accortamente evitata. La volontà di Virginia Raggi di ricandidarsi a sindaco di Roma, nonostante i risultati pessimi della sua amministrazione, abilmente governata dai due soci fondatori del Movimento, a cui si è accodato per convenienza colui che resta il leader politico dei grillini, ha smosso le acque e portato ad un nuovo equilibrio.

Sicuramente il vincitore della partita è Beppe Grillo che è riuscito a favorire un compromesso che ha accontentato capre e cavoli, dando il segnale inequivocabile che è sempre lui a tirare le fila nel movimento. Alla fine, proprio la mossa che andava più contro il suo progetto, che da quando è nato il secondo governo Conte è restato sempre quello di un’alleanza organica col Pd, cioè la candidatura di un sindaco che gli alleati non sono disposti ad appoggiare, si è rivelata funzionale per quelli che, in tempi democristiani, si sarebbero chiamati “equilibri più avanzati”.

Con molta perfidia, Grillo ha accontentato la Raggi ma, in qualche modo, l’ha anche mandata allo sbaraglio: sapendo che oggi i cittadini romani di candidati del Movimento, Raggi o non Raggi, non ne vogliono sapere, la ricandidatura del sindaco è perfetta per intestare a lei (e eventualmente ai suoi sponsor Casaleggio e Di Battista), e non al Movimento, la prevedibile sconfitta. Salvo poi convergere, nel ballottaggio, sul candidato piddino capito che il passaggio al doppio mandato creava un precedente a proprio favore, Di Maio si è subito accodato, con tanti complimenti alla sindaca (e con lui hanno gioito tutti i parlamentari che si trovano nella stessa condizione).

Non solo, avendo fatto a Casaleggio in qualche modo un favore, compreso quello di passare per la piattaforma Rousseau, si è approfittato dell’occasione per far sancire dalla fantomatica  “base” anche l’accordo politico con il Pd. La rivoluzione del 14 agosto si è così compiuta. Ne esce sconfitto Giuseppe Conte, a cui Grillo ha fatto capire chi è il capo del Movimento e da chi lui, che non ha voti, dipende, dopo che si è liberato dell’abbraccio stretto di Di Maio e Salvini.

Il premier si era infatti mosso autonomamente nei giorni precedenti, cercando un accordo di scambio col Pd e con Zingaretti (soprattutto tramite il suo consigliere Bettini): all’alleato di governo il sindaco capitolino, ai pentastellati il governatorato del Lazio, con Zingaretti chiamato al governo, al posto della Lamorgese, in un mini rimpasto.

Evento che potrebbe realizzarsi ma solo se lo vorrà, oltre allo stesso Zingaretti, anche l’astuto comico genovese.

giannuli, grillo

È Grillo il vincitore della rivoluzione d’agosto. La bussola di Ocone

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