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Il termine populismo nasce dando al popolo il suffisso “ismo” in senso spregiativo. È l’operazione di élite che osservano il popolo da fuori, ponendosi come “altro” da esso. Qui nasce il fraintendimento del termine popolo, una moneta a due facce: quello degenerato nei populismi e quello che fonda le comunità politiche. Nel mondo antico, con Platone si parla di “oclocrazia”, ochlokratía, il governo popolare come forma degenerativa della democrazia. Nella Repubblica, la politica basata sulla verità è comparata a quella basata sulle emozioni. Quando il pathos governa i molti, il popolo diventa per Platone “un grosso animale”.

La riflessione sul popolo viene da lontano: Atenagora di Siracusa sosteneva che “’popolo’ è il nome di tutta la collettività, mentre ‘oligarchia’ è una parte”. In età romana il popolo diventa la totalità di tutti i cittadini con pieno diritto ma la distinzione di Cicerone tra populus e multitudo continua a dividere il pensiero contemporaneo. Per il filosofo romano la res publica è la res populi, il cui fine è “una moltitudine di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza d’interessi”. Con l’avvento della Nazione, il popolo è considerato un oggetto, secondo quanto ha scritto nel 1907 Friedrich Meinecke in Cosmopolitismo e Stato Nazionale: “’Nazione’ era un concetto che tendeva alla luce, alle altezze, alla personalità, ‘popolo’ era l’espressione di un’esistenza passiva e vegetativa, condannata all’obbedienza operosa”. Il popolo diventa l’ancella del potere politico, in cui si deposita lo spirito di coesione di una comunità che da cum – munus comporta la condivisione di un dono nella co-assunzione delle responsabilità.

Charles Taylor parla di “politica del riconoscimento”, che si basa sul diritto dell’identità e che la Chiesa chiama nelle sue encicliche sociali “sviluppo dei popoli”. Si rovescia, così, lo schema della politica comunista e neoliberista: prima la “persona concreta”, poi le strutture sociali, quelle che chiamiamo corpi intermedi, e ancora dopo le istituzioni politiche.

Per la Chiesa la vita politica democratica non si riduce al voto. Se così fosse, si genererebbe ciò che i politologi chiamano la “spensieratezza nichilista” che porta a dire a un capo: “Guidami tu”. Dalla definizione di libertà dipende il fondamento stesso dei diritti e dei doveri: la “libertà da” porta al soggettivismo o a forme totalitarie, la “libertà per” crea il comunitarismo e forme di governo democratico. Tuttavia, difendere la libertà negli ordinamenti politici è da sempre difficile: “Soltanto pochi preferiscono la libertà, i più non cercano che buoni padroni” scriveva Gaio Sallustio, senatore della Roma d’età repubblicana.

Dire “populismo” significa riconoscere un vulnus nella dignità stessa del popolo e affermare la sua potenziale manipolabilità. Quando potenti e prepotenti comandano individui con una coscienza morale ridotta a un oggetto, il popolo è portato istintivamente a costruirsi vitelli d’oro da adorare nel deserto, oppure ad applaudire Gesù come leader all’entrata a Gerusalemme e a condannarlo a morte pochi giorni dopo. Al di là del dato di fede, nella storia rimane lo scandalo del “sentirsi popolo” scegliendo un malfattore e condannando un giusto. È il paradosso che ciclicamente si ripete quando la coscienza dei popoli si riduce a un “oggetto morale” e abdica all’essere un “soggetto morale” capace di distinguere il bene dal male, le scelte umane da quelle disumane. I populismi sono come burrasche che si infrangono su tutto ciò che è governo e istituzioni. Sono movimenti storici ciclici – gli ultimi due sono nati intorno al 1930 e al 2008 – che producono energia quando il popolo soffre e subisce crisi finanziarie, alti tassi di disoccupazione, l’accoglienza di grandi flussi migratori, l’incremento di spese militari, la crisi della classe media, un’eccessiva corruzione della politica e, infine, la constatazione che le classi dirigenti da popolari diventano aristocratiche.

La degenerazione del concetto di popolo e la strumentalizzazione di chi lo guida è fisiologica negli organismi politici: le cellule del populismo possono rinnovare o deteriorare un organismo. Molto dipende dalle risposte che la coscienza del popolo sceglie di dare alle conseguenze dei populismi, che negano il pluralismo e le minoranze interne; venerano i leader come padri e padroni che appaiono nei media come uniche voci; esaltano il nazionalismo e il sovranismo; ignorano gli enti intermedi nella società, come le associazioni, la Chiesa, i sindacati; privilegiano forme di democrazia diretta su quella rappresentativa; ignorano le garanzie costituzionali come forme di controllo del potere; formano la pubblica opinione su appelli a emozioni e a credenze personali; sostituiscono la destra e la sinistra politica con le categorie del nord contro il sud, il “noi” contro il “loro”; contrappongono le élite a una idea di popolo puro.

Quando in una democrazia – il governo del popolo (dal greco demos: popolo e kratos: potere) – il kratos umilia il demos, allora il leader “populista” diventa l’alternativa, non teme di essere percepito e stigmatizzato come parte del popolo, che per quella voluta prossimità lo premia con un consenso affettivo.

Nel leader che mangia un piatto di spaghetti, mostra il corpo nudo e utilizza frasi semplici c’è la politica della rappresentazione che vince su quella della rappresentanza e delle competenze. È quel che avviene, per esempio, quando un presidente della Camera appena eletto prende il bus per andare in Parlamento o un ministro degli Interni decide di vestire con la maglietta delle platee che incontra. I politici devono posare come calciatori e modelle, il loro linguaggio politico è diventato quello dello sport e del marketing. La retorica del leader nata nella democrazia ateniese e utilizzata fino a Barack Obama, quella narrativa fatta di discorsi perfetti e storytelling impeccabili, è entrata in crisi. Con essa le visioni di lungo periodo con soluzioni precise ai problemi.

Davanti ai nuovi mondi, i vecchi resistono attraverso parole identitarie come quelle di Trump negli Stati Uniti, di Bolsonaro in Brasile, di Orban in Ungheria e di Salvini e Meloni in Italia. Con la loro prossimità, la chiarezza dei temi e la proposta identitaria religiosa, presidiano il territorio e convincono l’elettorato, inclusa una parte di quello cattolico. I simboli cristiani vengono utilizzati nella costruzione politica di un’identità religiosa etnico-nazionale, basata sulla contrapposizione tra un “noi” ideale contro un “loro” da respingere. Il linguaggio religioso dei politici esclude chi rimane fuori; riveste di sacro il potere, come quando Cesare dice “devo al dio la mia grandezza”; porta a credere che per dire il significato della fede basti il medium, l’oggetto, e non la testimonianza di vita.

Insomma, è l’antico schema: Dio, patria, famiglia, utile per “rifugiarsi” dal mondo. Un’alternativa, però, esiste. Nel Novecento, cattolici come De Gasperi e Moro, Dossetti, La Pira, Zaccagnini, Martinazzoli, fino ad arrivare al presidente Mattarella, hanno costruito la democrazia e l’Europa compiendo una scelta diversa: quella dell’inclusione e della dignità, della solidarietà e, soprattutto, della laicità. Laicità non è negazione né neutralità del proprio credo nello spazio pubblico, ma ascolto, condivisione, incontro e dialogo con le altre culture. È dal pluralismo delle posizioni, da parole scambiate e dal personalismo che sono nate la Costituzione italiana nel 1948 e la Comunità economica europea (Cee) nel 1957, quando il 25 marzo sei Stati (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) firmarono i Trattati di Roma. Occorre chiedersi: ci riconosciamo parte del popolo? Cosa diciamo quando diciamo popolo? La radice sanscrita del lemma – “par-pal” – ha il senso di riunire, mettere assieme, e si trova dentro la parola parnami, “io riempio”.

Dire popolo è dire pienezza. L’identità del popolo si costruisce nella comunità di vita, ci insegna il Presidente Mattarella. Si smette di essere folla composta da tante solitudini quando la cittadinanza non si limita all’”essere con” ma a un “essere per” gli altri.

L’Italia è il Paese delle cento città, dei mille campanili, delle reti familiari che educano, sostengono moralmente e aiutano economicamente. È la vera ricchezza del Paese non misurata dall’econometria: la qualità della vita è il valore dei legami relazionali che si crea nelle reti familiari, amicali, di vicinato e di volontariato. Il popolo nasce dalle comunità, antidoto ad ogni forma di populismo. Le comunità non calano dall’alto: nascono dal basso e, quando si connettono, rigenerano il sistema politico.

Nel pensiero di papa Francesco, il popolo è una categoria storica e mitica che si costituisce in un processo in vista di un obiettivo, un progetto comune e il senso di appartenenza. La storia lo insegna: il mito si relaziona all’idea e ciò che è concreto, ma non si esaurisce in esso, “è un’espressione della tensione tra lo storico e il trans-storico, tra l’immanente e il trascendente”. In Francesco il popolo è un’identità con legami sociali e culturali ed un processo da realizzare. Richiede un’immersione: “Per comprendere un popolo bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Solo così capiremo quali sono i valori di quel popolo”. Natura e destino, senso di appartenenza e progetto, capacità di riconoscersi senza conoscersi. È nelle tensioni di cui vive il popolo che la politica è chiamata a sanare le derive populiste: “Tra la realtà presente e la vocazione a un destino futuro; tra la libertà della sua elezione e il destino che si impone senza tenere conto della sua libertà”.

Negli scritti di Bergoglio, “popolo, più che una parola, è una chiamata, un invito a uscire dall’isolamento individualista, dall’interesse proprio e limitato, dalla piccola laguna personale, per rovesciarsi nell’ampio letto di un fiume che avanza e avanza, riunendo in sé la vita e la storia del vasto territorio che attraversa e a cui dà vita”. La maturità del popolo passa dalla responsabilità dei suoi membri di prendersi cura del bene comune e di tenere insieme i conflitti. Romano Guardini lo spiega così: “Quando si dice: ‘La vita regge gli opposti; gli opposti si realizzano nella vita; sono i modi in cui la vita è viva’, il concetto vita non indica una vita universale da pensare (…), ma la vita individuale: e il vivente concreto (…) Tutta l’idea degli opposti è stata pensata a partire dall’uomo”. “Non dunque sintesi di due momenti in un terzo. E neppure un intero di cui due rappresentino le parti. (…) L’uno degli opposti non si può né far crescere, né far salire dall’altro (…). Questa è l’opposizione: che i due momenti, ciascuno dei quali sta in se stesso inconfondibile, inderivabile, inamovibile, sono tuttavia indissolubilmente legati l’un l’altro; si possono anzi pensare solo l’uno per mezzo dell’altro”.

Da queste tensioni nasce il cittadino che – dal latino citatorium – è il convocato con un particolare munus (potere), quello di costruire una parte del bene comune che può tenendo insieme pienezza e limite; idea e realtà, globale e locale. In questo si raggiunge la sintesi che Bergoglio fa del popolo quando ribadisce i principi di Guardini: il tempo è superiore allo spazio; l’unità è superiore al conflitto; la realtà è superiore all’idea; il tutto è superiore alla parte. La pienezza della cittadinanza è quella di essere inserita in un popolo che al centro pone l’ascolto della propria coscienza sociale e sa discernere per scegliere. La responsabilità personale è l’inizio di ogni cambiamento, che comincia con la presa di coscienza di essere protagonisti della realtà. Per questo la dottrina sociale della Chiesa pone al centro la cooperazione, il mercato solidale, il lavoro umano e la gestione sovranazionale di temi comuni che oggi sono, ad esempio, il rapporto uomo-macchina, la privacy dei dati in rete, i temi ambientali, le radici cristiane dell’Europa e così via.

Popolo, politica e democrazia. Il senso di comunità secondo padre Occhetta

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