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Che ruolo e che spazio c’è ancora per l’Italia in Libia? E quali sono le condizioni nel Paese e le proiezioni per il futuro? A valle della visita guidata dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, la sesta di un alto rappresentante del governo italiano nel Paese negli ultimi nove mesi, Formiche.net traccia un bilancio e una quadro della situazione, stante le ultime evoluzioni (lo spiraglio di un processo indirizzato verso la stabilizzazione?), in una conversazione con Federica Saini Fasanotti, storica delle operazioni militari, esperta di Libia della Brookings Institutions, tra i think tank più autorevoli a livello globale.

“Tutto dipende dal governo libico: credo che uno come Fayez al Serraj, se resterà al suo posto in futuro, voglia mantenere una certa indipendenza. Lo dimostra l’episodio con Bashaga (Fathi Bashaga è il ministro dell’Interno vicino alla Turchia che è attualmente sospeso dall’incarico per volere del premier Serraj, sotto l’accusa di aver fomentato proteste anti-governative, ndr). Serraj aspira a mantenere un ruolo indipendente come balance internazionale, dialogando con chiunque voglia far bene al Paese”, spiega Fasanotti.

“Lui – continua – ha interesse nel mantenere il potere, però lo vuole fare in maniera più cristallina, potremmo dire a là occidentale”. Uno dei punti dietro al governo creato dall’Onu che Serraj guida, noto sotto l’acronimo inglese Gna (sta per Governo di accordo nazionale), è il peso della Turchia. Ankara ha fornito assistenza militare a Tripoli contro l’assedio dei ribelli dell’Est: ora chiede che la sfera di intervento libico si trasformi in sfera di influenza, anche attraverso la creazione di basi militari sul territorio libico, ossia in mezzo al Mediterraneo. Serraj è chiamato a concedere qualcosa, sebbene ci siano stati già segnali del peso di questa partnership tra i politici tripolini: “Non credo vogliano una dipendenza”, commenta Saini Fasanotti.

E l’Italia? È una domanda classica: il nostro Paese rivendica connessioni profonde con la Libia, ossia rivendica di avere in Libia quella sfera di influenza che la Turchia sta creando (naturalmente intaccando quella dei competitor). Anche durante la visita di martedì, inoltre, sono emersi progetti e dossier di carattere economico-commerciale che si dipanano sul suolo libico e su cui Roma intende far valere l’interesse nazionale (è stato anche questo il ruolo svolto durante la visita dal sottosegretario Manlio Di Stefano, che alla Farnesina ha delega al commercio con l’estero). “Certamente – aggiunge Saini – ci sono investimenti su cui l’Italia potrebbe avere spazi. Penso per esempio alla rete elettrica, che va rifatta praticamente del tutto. Ho lavorato come advisor per Terna e ricordo che avevamo molto interesse al contesto libico, anche se finora non ci sono stati spazi per via delle condizioni di sicurezza. Ma oltre alla rete elettrica, ci sono le autostrade, ferrovie e treni, gli acquedotti: il paese manca di tutto, è da ricostruire”.

Non è un caso se alcuni stati – come la Russia – da tempo hanno rialzato l’attenzione sulla Libia: nel caso di Mosca c’è da far valere alcuni accordi siglati con il deposto rais Gheddafi (riguardano progetti sulle infrastrutture finalizzati da ditte russe). Qualcosa di simile è rivendicato adesso anche dall’Italia, opere decise ai tempi dall’ex premier Silvio Berlusconi che con il rais libico aveva instaurato un rapporto diretto e personale. “Ci sarebbe posto per tutti, in realtà. E il Paese potrebbe rifiorire in pochi anni: ma il punto è se i libici avranno realmente intenzione di fare la pace”, commenta l’esperta della Brookings.

C’è un’iniziativa semi-congiunta portata avanti da Serraj e dal presidente del parlamento, Aguila Saleh, che finora aveva fatto da copertura politica ai ribelli e ora sembra essersi sganciato. Ha ricevuto il plauso internazionale, ma come giudicarla realmente? “Sono scettica. A me sembrano mosse per tenere ferma l’opinione pubblica e i grandi supporter internazionali: danno soddisfazione e immagine, ma non sono procedimenti supportati da cambi di rotta, perché mancano del consenso delle milizie sul campo. E infatti pochi giorni dopo, il portavoce di Haftar (Khalifa Haftar è il capo miliziano dei ribelli dell’Est libico, ndr) le ha definite spin politico”.

“Bisogna essere chiari – aggiunge Saini Fasanotti – Finché c’è Haftar in campo, anche se con un ruolo minimo, non c’è spazio per una reale programmazione”. Perché, cosa manca a Saleh in Cirenaica? “Il potere di Saleh su una società che è stata costruita negli ultimi anni con una struttura militarista è molto relativo. Ha alcune tribù che lo appoggiano, ma non ha forze armate. Dunque o c’è un cambio di rotta assoluta, per esempio passando dagli Emirati, con gli Stati Uniti che li convincono a non fare più da supporter agli haftariani, oppure stante la situazione è impossibile”.

È uno dei limiti dell’interpretazione e forse di una percezione, ipocrita, che è stata fatta uscire dal conflitto: si è sempre detto che non esistevano spazi per una soluzione militare, mentre sul campo le milizie – prime fra tutte quelle delle Cirenaica che Haftar ha raggruppato sotto l’acronimo ambizioso Lna, Libyan national army – non hanno mai mollato del tutto l’intenzione di risolvere la questione con le armi. Anzi, l’arrivo di cargo sia in Cirenaica che in Tripolitania, anche in queste settimane, potrebbe far presupporre che il periodo di calma possa essere addirittura sfruttato per un rafforzamento. Haftar potrebbe addirittura lanciare un contrattacco, mentre Serraj parla di elezioni? “Sono state fatte uscire delle date, si è parlato di marzo, ma le elezioni sono l’apoteosi di un percorso verso la democratizzazione che ancora non mi pare stia iniziando. Non si arriva alle elezioni senza la deposizione delle armi”.

E dunque il punto profondo è sul come arrivare al disarmo: idee? “Non possiamo lasciarli da soli – spiega l’esperta – perché da soli forse non lo faranno mai. Ci vuole un gendarme: intendo un contingente straniero internazionale, assolutamente non europeo, deciso dalle Nazioni Unite (qualcosa sullo schema afghano o dell’Unifil), con eserciti possibilmente di paesi musulmani e non legati al contesto africano, magari asiatici”. La proposta è dunque creare una forza di interposizione, secondo Saini Fasanotti: ma c’è di più. “E se i turchi e i russi/egiziani (rispettivamente sponsor di Tripolitania e Cirenaica, ndr) fossero gli stakeholder di questo framework? Con al centro, lungo il corridoio di Sirte, gli americani e altri attori internazionali. Significherebbe trasformare i briganti nello sceriffo, mettendoli per altro sotto il controllo degli osservatori Onu.

“Sarebbe una mossa coraggiosa – spiega l’esperta della Brookings – che metterebbe in mano ad Ankara e Mosca (e Cairo) la responsabilità della stabilizzazione militare. E non è certo poco. A quel punto allora si potrebbe partire per progetti più ampi. Penso ad esempio alla creazione di uno stato federale, ma forse è ancora presto per affrontarli. Parlo di fantapolitica allo stato attuale, perché è un percorso che ha proiezione decennale”.

tripoli

Il futuro della Libia dipende dalle armi. L'analisi di Saini Fasanotti (Brookings)

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