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Incertezza, occupazione e “nuove infrastrutture”. Sono questi i tre temi che emergono dal rapporto sull’attività del governo presentato dal premier Li Keqiang in occasione dell’apertura delle Due Sessioni, ovvero le riunioni plenarie annuali degli organi assembleari cinesi. Si tratta dell’appuntamento politico più importante del calendario politico di Pechino che, tradizionalmente, si tiene a partire della prima settimana di marzo, ma, come immaginabile, era stato rinviato per l’emergenza Covid-19. 

Il fatto che il rinvio sia stato di soli due mesi e mezzo viene presentato come una grande vittoria da parte della leadership di Xi Jinping che dichiara di aver risolto prima degli altri la più grave crisi degli ultimi decenni. 

Tuttavia, il prezzo è stato alto anche per Pechino e le conseguenze molto visibili. I titoli, infatti, sono tutti per la mancata indicazione di un obiettivo di crescita del Pil per la prima volta da quando è stata introdotta questa misura nel 1990. Va detto, però, che il dibattito sull’utilità di questa pratica era vecchio di almeno di cinque anni, quando, nel “riconoscere il new normal dello sviluppo economico cinese” era stato indicato un obiettivo variabile nel 2015. Addirittura, lo stesso anno la municipalità di Shanghai aveva rinunciato a fissare il proprio. Inoltre, non si può non richiamare la riflessione del professor Michael Pettis sul fatto che parlando di “crescita di Pil” in Cina non ci si riferisca tanto a un dato di output quanto a uno di input con la funzione di mettere in funzione le varie agenzie statali con l’obiettivo di attivare risorse per raggiungere quanto stabilito. 

In questo senso, la rottura del tabù del target potrebbe essere letta anche positivamente verso la possibilità di ristrutturare la crescita verso modelli più sostenibili meno dipendenti dalla leva degli investimenti pubblici. La presenza di altri obiettivi quantificati con precisione, però, aveva reso impossibile il rinunciare al target in passato. Su tutti c’era il raddoppio del Pil pro capite rispetto al livello del 2010 entro il 2020, un risultato dall’alto valore simbolico perché sarebbe stato celebrato come il segno del raggiungimento di una “società moderatamente prosperosa” – via intermedia alla piena modernizzazione del Sogno Cinese nel 2049 – nel centenario della fondazione del Partito comunista cinese nato nel 1921. 

A un passo dal risultato – che sarebbe stato raggiunto con una crescita del 5,6% nel 2020 – il Covid-19 ha comportato una revisione dei piani perché, nelle parole del premier Li Keqiang, “non abbiamo fissato un obiettivo specifico per la crescita economica […] perché il nostro Paese dovrà affrontare alcuni fattori che sono difficili da prevedere nel suo sviluppo a causa della grande incertezza sulla pandemia di Covid-19 e sull’ambiente economico e commerciale mondiale”. Dunque, secondo questa interpretazione, la mancanza di stabilità globale giustifica il rinvio degli obiettivi iconici, ma lascia sul tavolo preoccupazioni reali. La più pressante è quella sull’occupazione, che secondo alcune stime sarebbe schizzata al 20% considerando i lavoratori migranti irregolari che hanno pagato la crisi. Il dato è che l’obiettivo di disoccupazione urbana è passata dal 5,5% del 2019 al 6% del 2020 e la creazione di nuovi posti di lavori è scesa dagli auspici degli 11 milioni del 2019 a 9 milioni quest’anno. 

Ma come raggiungere questi target? Il binomio classico della politica economica cinese – e non solo – degli ultimi anni è “stimolo o riduzione dell’indebitamento”. Sono ancora presenti, infatti, gli effetti della risposta di 4.000 miliardi di Rmb avanzata dopo la crisi finanziaria globale che hanno compensato il calo della domanda internazionale a costo però dell’impennata del debito e di una crisi di sovraccapacità dovuta alla scorsa efficienza degli investimenti pubblici. 

E proprio quest’ultimo aspetto caratterizza l’ultimo tema: se nel decennio passato la Cina ha realizzato più infrastrutture di qualunque altro Paese nella storia, già l’anno scorso ci si interrogava sull’assenza di nuove grandi opere da potersi realizzare con un ritorno economico sufficiente a giustificarle. La risposta è nelle cosiddette “nuove infrastrutture” un concetto sviluppato nel dicembre 2018 e che fa riferimento in sintesi al 5G, in esteso a big data, intelligenza artificiale e tutto quanto possa favorire l’integrazione tra internet e sviluppo, ma anche mezzi di trasporto all’avanguardia. Tradotto, i propositi del grande piano di riqualificazione industriale Made in China 2025 – messo da parte su pressione americana – sono più che vivi che mai e la tech war in atto avrà ancora molto materiale di cui occuparsi. 

E Xi Jinping in tutto ciò? La domanda è lecita, soprattutto sulla base delle premesse di origine e capacità di risposta alla crisi. La valutazione a oggi è che sia riuscito a “superare la (prima) nottata” grazie al fatto che altri non hanno forse fatto meglio di lui, offrendo molti argomenti alla sua narrazione, e anche alla circostanza che dal gennaio 2019 aveva orientato tutta la propria comunicazione all’esigenza di stringere i ranghi del partito per lottare contro incertezze esterne e interne presenti e future. Una eventualità che si è manifestata con grande forza in tempi estremamente rapidi e che costringe la leadership cinese a affrontare sfide senza precedenti con meno strumenti del passato – si pensi al debito già citato – e con un contesto internazionale ostile come non lo era da tempo. 

Allo stesso modo, bisognerà capire quali effetti nel medio-lungo periodo avranno sulla popolazione e sulla élite allargata del partito le difficoltà economiche e il clima da guerra fredda in arrivo. Le misure adottate, al momento, prevedono un rafforzamento delle misure presentate come pensate per riportare stabilità – è il caso di Hong Kong – e un atteggiamento più risoluto nei confronti di Taiwan.

Quale futuro per la Cina (e per Xi). La discussione a Pechino è aperta...

Di Filippo Fasulo

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