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In tempi di crisi si potrebbero compiere scelte strutturali che in condizioni normali le condizioni giuridiche e sociali non consentirebbero.

Il coronavirus rappresenta “l’ora più chiara” perché rende nitide le contraddizioni di questo tempo: la globalizzazione che accresce le disuguaglianze, l’Unione europea che neanche nelle difficoltà riesce a realizzare la solidarietà e l’Italia che paga uno dei prezzi più alti per problemi strutturali.

Dal mio punto di vista, si manifesta la vera emergenza del nostro Paese che è quella educativa, nel senso tecnico di scuola e università.

Le evidenze sono molteplici e spaziano dalle incertezze delle élite politiche e burocratiche agli scompensi dell’organizzazione sanitaria, dalla superficialità della narrazione mediatica alle improbabili risposte ai sondaggi dei cittadini.

Solo da noi il racconto della malattia ha provocato una videocrazia e una pandemia immateriale che sta scandendo perniciosamente queste fasi. E i limiti politici e sanitari sono una aristotelica conseguenza di quelli educativi. Mezzo secolo di facilismo amorale ha progressivamente abbassato il livello dello studio, la capacità critica e le competenze reali dei cittadini.

Ricordava Albert Einstein: “La vera crisi è l’incompetenza”. Non so se il coronavirus sarà il pettine che indurrà a cambiamenti di fondo (quasi sicuramente no) ma il disagio sociale che seguirà alla riduzione del 10 per cento del Pil dovrebbe indurre le élites pubbliche nazionali a guardare al futuro e non a gestire l’emergenza come un’opportunità per loro stesse.

Appunto per questo la decisione di stabilizzare ulteriori 16 mila docenti sembra direzionarsi, scriverebbe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, verso “l’ordine, il disordine consueto”.

Il ’68 si verificò in tutto il mondo ma solo da noi si chiesero, e irresponsabilmente si concessero, gli esami di gruppo e il 18 politico. Parallelamente, adesso, di fronte alla riduzione degli studenti e alle lezioni da casa continuiamo ad assumere docenti?

In Germania gli insegnanti delle elementari percepiscono uno stipendio del 130 per cento in più e per una ragione assai banale: sono un terzo dei nostri pur avendo più allievi. Così come non è più possibile mantenere una selezione dei docenti universitari con le attuali regole che hanno creato un terribile precariato accademico che durerà tanto tempo poiché tutti gli abilitati non riusciranno mai ad entrare in ruolo.

E sapete come si cerca di affrontare il problema? Aumentando da 5 anni a 9 anni la validità dell’abilitazione. E nel frattempo continuano senza soste le preparazioni di altri concorsi.

Evidentemente si persegue l’obiettivo che dopo la licenza media dell’obbligo, praticamente il diploma dell’obbligo e tante volte la laurea dell’obbligo, si aggiunga anche l’ordinariato dell’obbligo.

Sarebbe l’ora di ripensare seriamente a tutte queste politiche e non tanto ai centimetri delle distanze tra i banchi quando si tornerà a scuola. Infatti, veniamo obbligati a soffermarci sui dettagli invece di riflettere sui problemi veri: chi insegna e come e cosa si trasmette davvero alle giovanni generazioni.

Pertanto, quanto stiamo vivendo in queste settimane non è un problema sanitario o politico ma è appunto una conseguenza della insostenibile leggerezza educativa del nostro Paese. Al momento il 26,9 per cento dei nostri concittadini è analfabeta funzionale, temo anche con qualche rappresentanza in Parlamento, negli ospedali e nelle università. Questo dato è destinato ad aumentare se continuiamo imperterriti con stabilizzazioni scolastiche e concorsi accademici fatti in questo modo.

Il mio invito al Ministro dell”Università Gaetano Manfredi, che conosco e stimo, e al Ministro della Pubblica Istruzione Lucia Azzolina è a non farsi sommergere dalla pur incombente emergenza ma di osare scelte che oggi sono impopolari ma che domani saranno certamente apprezzate.

L’emergenza educativa (e della classe dirigente). Scrive Caligiuri

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