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La Tecnomec Engineering è una delle maggiori imprese impiantistiche dell’Italia meridionale, insieme alle siciliane Irem e Sicilsaldo e alla abruzzese Walter Tosto. Opera in Italia e all’estero, lavora per grandi player fra cui Arcelor Mittal ed Eni, e nelle settimane del lockdown ha continuato la sua attività, essendo collegata a settori strategici, e dopo aver sottoscritto con i sindacati ed applicato nei suoi siti protocolli di sicurezza molto rigorosi.

All’ing. Carlo Martino, fondatore e direttore del Gruppo Tecnomec e presidente della Confapi Puglia, che associa diverse centinaia di Pmi in tutta la regione abbiamo posto alcune domande sulla situazione in cui versano tante aziende meridionali.

L’Unioncamere ha stimato per la Puglia a seguito degli effetti dell’epidemia da Covid-19 circa 20mila imprese in meno entro fine anno con la perdita di quasi 70mila posti di lavoro. Dal suo osservatorio associativo come si presenta lo scenario produttivo ed economico-finanziario delle piccole e medie imprese?

La situazione è estremamente grave. Già prima della pandemia la liquidità aziendale scarseggiava, ma oggi, dopo oltre 50 giorni di inattività, la situazione si è ulteriormente aggravata e si profila un vero e proprio baratro. Un impatto pesantissimo per le Pmi che hanno maggiore vulnerabilità e minore resilienza. Ma dopo aver arginato l’epidemia, ora è assolutamente necessario che la gente ritrovi il lavoro, che è l’unica vera risorsa per salvare il tessuto produttivo e sociale del Paese e del nostro territorio. Il virus ha fermato le nostre attività, ma non ha ridotto i bisogni a cui esse rispondevano, anzi se ne sono creati di nuovi, basti pensare all’indifferibile potenziamento delle strutture e delle tecnologie sanitarie, o alle crescenti applicazioni dello smart working. Ma se si aprono nuove possibilità di lavoro, bisogna offrire alle aziende risorse e liquidità per farvi fronte.

Lo Stato e la Regione Puglia hanno messo in campo ingenti risorse per sostenere il sistema delle imprese di ogni dimensione, ma da quanto emerso sino ad ora si sono riscontrate grandi difficoltà nel farle affluire ai soggetti potenzialmente beneficiari.

Ci sono stati grandi annunci per l’assunzione di provvedimenti importanti, certo, ma al momento il riscontro concreto per tante piccole e medie aziende è ancora limitato. Infatti la criticità maggiore delle strategie messe in atto è che sinora si è pensato di immettere liquidità nelle imprese solo garantendo l’accesso al credito bancario. Ma senza condizioni e procedure realmente agevolate per quell’accesso, il rischio, quando beninteso si riesca ad ottenere un finanziamento, è di indebitarsi ulteriormente solo per far fronte a costi correnti indifferibili e al pagamento delle tasse, ma poco o nulla resterebbe per nuovi investimenti. Insomma, le garanzie offerte alle banche sono in gran parte dello Stato, ma le risorse finanziarie sono degli Istituti di credito. Occorrerebbe invece che lo sia lo Stato a offrire alle imprese liquidità immediata, di cui una parte a fondo perduto, ed allungando i termini temporali da 12 a 15 anni della parte da restituirsi e il cui tasso deve essere realmente agevolato.

Ma quali sono i rapporti reali delle Pmi con le banche, al di là di quello che si legge sui giornali?

La situazione, in realtà, nonostante l’emergenza, non è sostanzialmente mutata perché l’Istituto di credito – non essendovi scudo penale per i suoi dirigenti e non ancora la possibilità sancita da una legge sull’autocertificazione della situazione economico-finanziaria e patrimoniale delle aziende – istruisce secondo le procedure abituali le domande di finanziamento per non incorrere in possibili reati, in caso di insolvenze o sopravvenuta decozione delle imprese, di concorso in bancarotta e di esercizio abusivo del credito. Per le società veramente sane però, con buoni portafogli ordini, ma con difficoltà temporanee di cassa, le banche dovrebbero agevolare l’iniziativa di chi mette in gioco la propria creatività e intraprendenza, ed a seguito di ciò essere accompagnate dallo Stato con le sue garanzie.

Nelle prefetture hanno avviato monitoraggi sugli appalti sensibili per evitare appetiti illegali.

Il tema della prevenzione di ogni infiltrazione della criminalità organizzata da parte della Confapi, come di tutte le altre associazioni datoriali, è considerato fondamentale e noi daremo pieno supporto ad ogni iniziativa dello Stato di contrasto alla illegalità che, oltretutto, configura una forma di concorrenza sleale delle altre imprese che operano alla luce del sole. Detto ciò, vorrei dire peraltro che non si può in certi ambienti politici e sindacali continuare a considerare l’impresa legale e chi la guida come protesi solo all’arricchimento e indifferenti ai valori. L’impresa è il luogo in cui si pone al centro il lavoro e ci si adopera per costruire qualcosa che risponda a bisogni reali della società. E più che mai oggi e per i prossimi anni – per uscire dalle conseguenze drammatiche della congiuntura post Covid-19 – bisognerà puntare sempre di più su una forte collaborazione fra datori di lavoro e loro collaboratori, altrimenti la rovina sarà comune, è bene saperlo.

Quali occasioni cogliere per rilanciare l’economia pugliese nel dopo emergenza?

L’economia pugliese ha tre motori trainanti, l’industria, l’agricoltura e il turismo. L’attuale congiuntura metterà purtroppo in difficoltà quest’ultimo per cui toccherà all’industria e al settore primario contribuire a contenere la flessione del Pil regionale. L’agricoltura pugliese, pur con una serie di carenze più volte sottolineate, continua a conservare primati nazionali in determinate produzioni che vengono trasformate ed esportate in quantità rilevanti. L’agricoltura inoltre, grazie anche all’agriturismo, gode di una buona immagine agli occhi delle popolazioni. Per l’industria e per molte di esse di grandi dimensioni invece si registra, in certi settori della società locale, malcelata diffidenza, se non una aperta ostilità.

Vuole farci qualche esempio?

La città di Taranto è emblematica a questo riguardo. Vi è chi vorrebbe chiudere lo stabilimento siderurgico nella sua interezza, con una perdita fra diretti e indiretti di circa 15.000 posti di lavoro, mentre l’imprenditoria locale e i sindacati vogliono che si proseguano i lavori di ambientalizzazione del sito, conservandone però la capacità produttiva e l’occupazione. Ma anche Arcelor Mittal – che oggi gestisce lo stabilimento – deve cambiare passo nel rapporto con il vasto sistema delle aziende dell’indotto che consente di far funzionare l’acciaieria. È assolutamente necessario allora che si regolarizzino i pagamenti dei lavori già eseguiti e fatturati. Ma anche il governo deve chiamare con forza l’attuale gestore a mantenere gli impegni contrattuali nei confronti delle aziende dell’indotto, altrimenti c’è il rischio molto concreto che una parte delle stesse entro poco tempo possa chiudere. Ma sarebbe grave se ciò accadesse, non solo perché si rischierebbe la perdita di migliaia di posti di lavoro, ma anche perché si disperderebbero molte eccellenze imprenditoriali di cui peraltro la Puglia è ricca anche in altri settori: basti pensare ai salotti in pelle della Natuzzi prodotti a cavallo fra Puglia e Basilicata, o ai treni diagnostici della Mer.Mec di Monopoli nel Sud est costiero barese, solo per citarne due.

Cos’altro si può fare per aiutare le aziende?

Per fronteggiare con successo le sfide che il mondo delle Pmi deve affrontare, voglio richiamare la necessità dell’associazionismo. Da presidente di una associazione datoriale devo ribadirne l’importanza perché oggi le aziende hanno bisogno di supporti di varie natura che possono trovare solo nelle compagini associative che offrono ad esse servizi sempre più qualificati. Una necessità di aggregazione che nel problematico futuro che ci aspetta sarà ancora più cogente.

Vi spiego le difficoltà delle imprese in Italia. Parla Martino (Confapi Puglia)

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